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Cieli immensi. Lettere (1935-1955) - Nicolas de Staël - copertina
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Cieli immensi. Lettere (1935-1955) - Nicolas de Staël - copertina

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1999
1 gennaio 1999
96 p., ill.
9788871664576

Voce della critica


recensioni di Barile, L. L'Indice del 1999, n. 11

Fra i nomi della pittura del secondo Novecento non si può ormai prescindere da quello di Nicolas de Staël, morto suicida a 41 anni il 16 marzo 1955.

Non sono mancate le parole di una critica appassionata per tentare di circoscrivere il mistero, la bellezza dei suoi straordinari dipinti, spesso parole di amici poeti, come René Char o, da noi, Piero Bigongiari. Ma niente può avvicinare a un artista come le sue stesse parole, con la loro necessità e la loro semplice verità: "vi sono soltanto due cose che veramente contano in arte. 1. Il balenare dell'autorità. 2. Il balenare dell'esitazione. È tutto. L'uno si compenetra dell'altro, ma al culmine i due si distinguono molto chiaramente", scrive nel maggio del 1953 a Pierre Lecuire, poeta amico che in quell'anno pubblica a Parigi il libretto Voir Nicolas de Staël. Ma già nel 1951 aveva scritto a René Char di ammirare, in Bataille, "quel suo esitare, quel suo scrivere contrastante fin dall'inizio". E pochi mesi prima della morte, nel gennaio del 1955 da Antibes al mercante d'arte Jacques Dubourg: "In Courbet vi è una logica che può sopportare tutte le illogicità, questa è vera logica".

Questo procedimento ha molto a che fare con la sua stessa pittura, come scrive ancora in quel febbrile gennaio 1955 al collezionista inglese Douglas Cooper: "tengo alla mia ossessione, perché senza quella non farei niente. (...) Perdo a ogni istante il contatto con la tela e lo ritrovo e lo riperdo. È necessario giacché credo nella casualità, non posso andare avanti che da accidente ad accidente".

Eccoci vertiginosamente proiettati nel cuore del suo fare artistico, e addirittura nell'immediatezza del suo semplice gesto fisico - con l'immediatezza delle sue stesse parole.

Siamo dunque davvero grati al bel libretto delle Lettere 1935-1955, tratte dal Catalogue raisonné de l'œuvre peinte di de Staël (Éditions Ides et Calendes, Neuchatel 1997), che con la partecipazione di Françoise de Staël e col titolo Cieli immensi, tradotte da Delfina Provenzali, escono ora nella collana "Atelier" diretta da Stefano Crespi per Le Lettere.

Il carteggio inizia nell'agosto del 1935 con alcune lettere del ventenne Nicolas (nato in Russia nel 1914 e orfano a otto anni) ai genitori adottivi in Belgio, da un viaggio in Spagna in bicicletta. Madrid, il Prado (dove tornerà vent'anni dopo per entrare dritto nella sala Velázquez e rimanerne nuovamente, ma in modo diverso, folgorato): "Di qui andremo a Ronda, e da là scenderemo su Algésiras, probabilmente a piedi, valicando le montagne - e poi Malaga, Granada, Cartagena e, lungo il mare, fino alle Baleari - Barcellona, la Francia. Tutto il Midi che amo fino a Nizza, Parigi e, dal momento che Parigi come Bruxelles è estremamente monotona, contiamo di attraversare la Bretagna".

Qui Nicolas de Staël è già stato scelto, o ha scelto egli stesso, il suo destino, la sua luce: che è la luce mediterranea, dal nordafrica al Midi alla Grecia. Cézanne, Van Gogh, Bonnard, prosegue la lettera, avrebbero potuto dipingere ovunque, ma i Greci no: infatti "la loro scultura coglie e rende quel sole come è impossibile fare altrove nella sua completa molteplicità" - e pensiamo al suo olio del 1953, Le Soleil, così denso di materia, i gialli che occupano quasi per intero lo spazio.

Il movimento delle forme, dunque, nel movimento della luce: la tecnica del colore gli appare fin da subito la sua preda. "È necessario sapersi dare una spiegazione perché si trovi bello quello che è bello, una spiegazione tecnica", scrive nel novembre 1936, a ventidue anni: "Perché Veronese, Velázquez, Franz Hals usavano più di 27 neri e altrettanti bianchi? Perché Van Gogh si è suicidato, Delacroix è morto furioso contro se stesso e Hals era ubriaco di disperazione, perché, a che punto erano?". Parole davvero inquietanti che dicono, semplicemente, il suo stesso destino.

La materia in movimento è il suo tema: e negli anni fra il 1951 e il 1955, quando l'esperienza libera il se stesso più libero e fecondo, anni di accelerazione come di chi sa di non avere molto tempo, le sue pitture si riempiono di cieli. Di qui il bel titolo che riprende una frase di una lettera a Char (col quale inizia una proficua collaborazione) del novembre 1951: "Improvvisamente mi hai fatto ritrovare la passione che avevo, bambino, per i cieli immensi, le foglie d'autunno e tutta la nostalgia di un rapporto diretto".

Molte indimenticabili marine di questi anni si videro in una bella mostra all'Hôtel de Ville di Parigi (catalogo ADAGP, Paris 1994), che poi transitò nella villa Magnani Rocca di Parma (catalogo Electa, 1994), fra cui i bellissimi olî di Agrigento, uno dei quali riprodotto in bianco e nero anche in questo libretto, altissimo esempio del suo amore per le masse cromatiche e la sua maestria nelle variazioni delle tonalità, che vanno verso l'essenza delle cose. Come osserva Stefano Crespi nella postfazione, infatti, l'interpretazione della luce in de Staël non è di natura impressionistica, relativa all'ora che trascorre: "Per stesure luminose, strato su strato, de Staël tende a un 'accecamento' della luce, come a un'evidenza delle cose, quasi alla loro stessa essenza: a un'immagine di mitica rivelazione". In tal senso è interessante un'altra lettera del gennaio 1954 che parla di "movimento senza trama": "l'ideale sarebbe un movimento senza trama fissando l'attenzione sui piedi della Markova o non so di chi altro: danza senza danzare una trama con un passo femminile quasi anatomicamente libero, come potrebbe essere lo sforzo di poggiare qui o là, piede gioioso o triste con tutta la gamma possibile della sensibilità, e poi sollevarsi al centro, bacino, torace, gola, spezzarsi della forma, pienezza, luce, ombra". E qui accenniamo alla seconda osservazione di grande interesse nello scritto di Stefano Crespi, relativa alla figurazione degli ultimi anni, dove la realtà è sentita, dice, non come apparenza fenomenologica, "ma come allucinazione, cifra più assoluta e disperante di una metafora".

De Staël stava ormai per affrontare il periodo di solitudine quasi "inumana" che si sarebbe concluso tragicamente, a partire dal settembre 1954 ad Antibes (boulevard du Front de mer), che segna il rinnovamento della sua arte nel senso di una maggior fluidità: lavora tutto l'inverno, dipingendo il mare, i porti, i cantieri, nature morte, nudi, e cieli immensi, e usa tamponi di garza e cotone per distribuire il colore, che restituiscono la tenerezza e il brivido della luce miracolosamente raggiunta: perché l'arte, scrive in quel tempo, è "fragile come l'amore".

Il carteggio termina con un biglietto a Jacques Dubourg, col quale stava preparando una mostra per il prossimo giugno, scritto il giorno prima della morte: "Non ho la forza - termina il biglietto - di finire i miei quadri. Grazie per quanto avete fatto per me. Affettuosamente, Nicolas".

Il libretto svelto e leggero fornisce tutte le notizie necessarie alla comprensione dei testi rinunciando, con felice scelta, alla pesantezza di un apparato di note, ma comprende un concisa biografia in quarta di copertina, la riproduzione di un Ciel à Honfleur del 1952 nella prima, oltre a due saggi: il primo di Giovanni Testori dal "Corriere della Sera" in occasione di una mostra al Grand Palais nel 1981, l'altro, inedito, di Piero Bigongiari, che ebbe un tramite d'eccezione come René Char, e che sempre più si conferma magistrale lettore di pittura. Per chi invece volesse saperne di più su questo pittore in Francia amatissimo, segnaliamo una biografia appena uscita di Arno Mansar, Nicolas de Staël, edito nella collana "Signatures" da La Renaissance du Livre di Bruxelles (1999).

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