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Tra i molti emuli e derivati dell'inarrivato ''Personaggi precari'' di Vanni Santoni, probabilmente il più riuscito.
L'altra faccia della vita. Molto bello.
Un libro che descrive tanti morti fisiche, che rimanda ad uno spazio indefinito. Sguardo originale ma non bizzarro sull'ultimo momento della vita. Spiazzante. Ragguardevole.
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Il caleidoscopio è uno strumento che, servendosi di specchi e pezzetti di vetro, crea infinite strutture simmetriche di vari colori e forme. Le figure cambiano continuamente senza mai ripetersi e ogni immagine è composta da più immagini: quella principale e quella creata dagli interminabili riflessi sprigionati dagli specchi. Aprendo il libro di Franco Arminio, ecco cosa si fa: si appoggia l'occhio sulla carta, si voltano le pagine come se fosse un piccolo vetro smerigliato, si osservano le figure simmetriche che lo compongono, mosaici vivi e nitidi che si susseguono senza mai ripetersi, pur partendo dalla stessa matrice, dallo stesso specchio.
Lo specchio che muove il libro è la morte. Una rifrazione che il testo riflette né impaurito né pauroso, ma di un calore particolare come spesso sono i guaiti dei cani quando stanno soffrendo. Un gesto semplice, naturale, necessario, che non si sottrae all'epilogo scontato di quella sofferenza, ma che, anzi, l'accoglie per intero, con un po' di anima, con un po' di spirito, ma soprattutto con tutto il corpo.
Gli autori di queste cartoline sono persone morte. Sono cadaveri con gli occhi già spenti ma da molto poco, da un tempo brevissimo che li separa dalla loro privatissima scomparsa a queste cartoline. Arminio ci racconta tale spazio, questa intermittenza sgranata fatta di un solo istante, raccolto con la cura e la lucidità di cui la morte ha bisogno. A dare forma alle cartoline non è la voce di un solo mittente, né quella di Arminio soltanto, ma di un coro multiforme che prende vita da quell'istante comune a tutti eppure diverso per tutti. Arminio è un portavoce, un esecutore, un osservatore, che registra l'istante, lo racconta come si racconta una gita o la nascita di un bambino. Un fatto che atterrisce, che spaventa, che commuove, che diverte a volte, ma che è lì, immobile e scontato come un cielo. Il suo occhio è lo stesso che si appoggia al caleidoscopio, curioso e attento di vederne le nuove forme, di scoprirne le luccicanze, di indagarne i meccanismi, ma pure rimane fermo dov'è, abbastanza distante da garantirne l'intimità, abbastanza incredulo da rispettare l'onestà di quel movimento finale.
Così, le figure smerigliate dei personaggi che ci scrivono da un posto sconosciuto ma che appare molto vicino (un angolo del vicolo, una strada dietro casa, una finestra di fronte), si mostrano franche, spogliate, leali come se solo in quell'istante avessero scoperto quanto ordinario sia l'essere umano, quanto sia semplice il mondo da cui ci si stacca. È la sorpresa il tratto distintivo di queste donne e di questi uomini; il fiato rotto in gola di quando di soprassalto ci accorgiamo di un conoscente in lontananza o di una banconota trovata per strada. Arminio, con una penna che sta tra la poesia e la prosa, tra gli epigrammi greci e la pasoliniana "linea sabiana", raccoglie quel fiato rotto, quella gola spezzata, e con la naturalezza di uno starnuto lo cesella, lo lima, lo spoglia, per restituirci l'autentica, indifesa grazia di quel movimento emotivo. E così nel caleidoscopio compaiono gli ultimi sguardi che i cadaveri hanno avuto modo di avere, le ultime immagini, le poche cose che una persona si porta appresso, nella vita come nella morte: una fotografia, il frigorifero aperto, un bacio, una torta di compleanno, una foglia di ferro battuto, Vincenzo l'amico marmista, la neve.
Una morfologia della morte austera e ironica, che non si sottrae né alla decadenza fisica ("Non avevo più mani, non avevo più occhi, non avevo più gambe, il cuore batteva in mezzo al niente") né alla violenta esuberanza con cui la vita a volte viene meno ("Io sono uno di quelli che prima di morire stava bene"). Un'antologia che appartiene di più ai vivi, di quello che dei morti rimane ai sopravvissuti, raccontato però da chi, scoprendosi cadavere, ha la lucidità non più umana di accettarne la condizione. Come se il narratore delle cartoline, e quindi l'autore che ne ha permesso il gesto, avesse dovuto compiere una giravolta, trasmutarsi, morire un poco anche lui, per ritornare alla vita e raccontarne l'esperienza.
A Spoon River c'erano lapidi, qui ci sono pensieri che vengono volando; lì c'erano personaggi con un passato critico, specifico, narrativo, qui ci sono esseri senza nome che giacciono in un abbraccio, in un sospiro, in una fessura, che ci raggiungono sussurrando, senza paura, senza dolore, soltanto con una impalpabile pietà che è la pena prima per se stessi, poi per l'umanità intera.
Rossella Milone
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