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Un romanzo lungo di Simenon è una rarità. Credo siano 3 in tutta la sua sterminata produzione. Mentre il Testamento Donadieu funziona, è scorrevole, c'è un mistero da risolvere e Simenon come al solito si muove benissimo tra appartamenti e cittadine, questo Cargo è una sorta di romanzo d'avventura in giro per il mondo. Il morto c'è e si sà anche chi l'ha ucciso. Una ragazza verso cui si può provare solo antipatia. Non che il protagonista sia meno antipatico e noioso. L'unico personaggio coinvolgente è il capitano. Romanzo troppo riflessivo, troppe coincidenze improvvisate. Insomma, da leggere per leggere i suoi romanzi considerati lunghi in termine di pagine, ma non un grande libro di Simenon.
Cargo è uno dei 'romans dur' (non polizieschi) che avrei adorato annoverare in una raccolta completa in commercio, con gli altri centosedici (almeno). Ciò anche solo per soddisfare una certa tendenza morbosa al collezionismo, nonché supportare l'immenso Calvino quando asserisce che "I libri sono fatti per essere in tanti, un libro singolo ha senso solo in quanto s'affianca ad altri libri, in quanto segue e precede altri libri"; oltretutto assicurando, così, una libreria di pregio ai miei eredi, e magari riesco anche a leggermene qualcheduno, prima. Forse non è fra i migliori che ho letto fin qui che io individuo nei titoli: Tre camere a Manhattan; Lettera al mio giudice; La camera azzurra (letteralmente fulminanti) e Le persiane verdi. Cargo rientra nella fascia B che è quella un pelo sotto le quattro stelle, per dire; però che si tratti di fascia A, B, o addirittura C (che però risulta ancora vuota), fa poca differenza perché Simenon ha la sovraumana capacità di portarti, con i suoi romanzi duri, in almeno centodiciassette mondi geografici e umani diversi, e questo è già un gran valore aggiunto di per sé. Se poi ci metti anche una trama che dalle 'stonfose', ansiogene e claustrofobiche atmosfere conradiane (con tanto di Kurtz) passa - con l'impeccabile destrezza narrativa che ti cucina a puntino con il solo sobbollire - ad un pezzo di stridente ed illusorio paradiso terrestre, allora è fatta.
In Cargo Simenon si distacca completamente dagli altri suoi scritti perché esso è un romanzo psicologico e non un giallo (genere letterario prevalentemente scritto dall’autore) che narra le disavventure di Joseph Mittel e Charlotte, due adolescenti, in fuga da Parigi in seguito a un delitto commesso dalla ragazza per l’ideologia anarchica. I due trovano rifugio tra le braccia di Mopps il comandante di un cargo che oltre ai trasporti leciti è in combutta con uno stato sudamericano per trasportare delle armi da fuoco. È da qui che iniziano le peripezie dei due giovani che inizialmente sbarcano a Buanavventura dove, per un breve periodo, si fermano a gestire una miniera d’oro, per poi, spostarsi a Tahiti dove il romanzo si concluderà. Già dai primi capitoli Simenon riesce a trasmettere al lettore un’inquietudine devastante merito della scrittura, dell’andamento molto lento dell’intera opera, ma principalmente dai pensieri di Mittel. Il protagonista, infatti, è semplicemente un ragazzo di ventidue anni con nessuna esperienza che si ritrova in una situazione non facile da gestire. Mittel, inoltre, avendo un animo notevolmente sensibile e incline a paranoie lentamente cadrà nel baratro dell’autodistruzione; i suoi sentimenti si riverseranno completamente sul lettore che terminato il romanzo si ritroverà con un vuoto dentro dovuto, in parte, alla pietà che prova nei confronti del povero ragazzo. A causa della sua lentezza, delle continue descrizioni e dei pochi colpi di scena non ho apprezzato notevolmente l’opera, però se volete conoscere Simenon su un altro punto di vista ve lo consiglio.
Recensioni
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Nella vastissima produzione di Georges Simenon vi sono anche quelli che lui definiva romans durs, non connessi al commissario Maigret e non strettamente gialli: Cargo è uno di questi. Scritto al ritorno da una crociera per il Sudamerica e il Mar delle Antille, il romanzo narra la fuga rocambolesca di una coppia di ragazzi poco più che ventenni che, dalla Francia, si imbarca su un cargo diretto a Panama. I due si conoscono nell’ambiente anarchico, ma hanno ben poco in comune: il protagonista, Joseph Mittel, è un giovane spiantato figlio di un famoso anarchico suicida; tubercolotico, sensibile ma ancora indeterminato, ha sempre vissuto all’ombra paterna grazie alla generosità della sua rete di conoscenti, pressoché ignorato dalla madre. Charlotte invece è una risoluta ragazza del popolo che, con il pretesto di servire la causa anarchica, prima estorce denaro al suo ex datore di lavoro e sgradito amante, poi finisce per ammazzarlo. Per sfuggire alla polizia s’imbarcano su un cargo diretto a Panama, lui lavorando in qualità di assistente alle caldaie, lei soggiornando nella cabina e nel letto del capitano Mopps, per arrivare, tra alterne vicende, a vivere prima nella giungla tropicale e infine a Tahiti.
Tra le varie peripezie a catturare l’attenzione del lettore c’è uno speciale senso di mancanza, d’indeterminatezza, di nostalgia perpetua rispetto a una felicità mai conosciuta. La vita di Mittel è dominata da questo senso di perdita. È un ragazzo senza passato e senza nome; non sa cosa fare di sé stesso e allora segue la corrente nella quale si trova invischiato. È per caso che sta insieme a Charlotte, non per amore; così come è un caso che si ritrovi coinvolto come complice di un omicidio, poi fuggitivo sul cargo di un contrabbandiere, poi padre: via via che il viaggio continua è sempre il caso a dirigere la sua vita, non una scelta. Questo romanzo non è la semplice scrittura di una trama avventurosa, è la messa a nudo della precarietà, del falso equilibrio su cui poggia la fragile impalcatura della vita dell’uomo. Anche quando il protagonista, sognando una vaga ma pulita, rassicurante idea di felicità familiare, si batte per creare un po’ di ordine, un evento fortuito torna a disperdere ogni altra possibilità. Non c’è sorpresa in tutto questo: fin dalle prime pagine aleggia un inquieto sentore di catastrofe incombente, e il calore soffocante, l’umidità claustrofobica, la natura opprimente, i miasmi della palude, tutto concorre a confermarlo.
Lo stile è trascinante, l’architettura della storia talmente ben calibrata che davvero ogni descrizione, ogni passaggio appare nella sua consequenzialità addirittura necessario e la lettura – nonostante la mole di pagine sia maggiore rispetto ad altri lavori dell’autore – scorre vorticante. Ma la storia possiede degli echi angoscianti, uno speciale ammonimento che ha a che fare col diventare adulti e un gran pessimismo di fondo. E mostra un’alienazione disturbante: l’estraneità non solo rispetto agli altri, inetti a qualsiasi atto di empatia, ma anche rispetto a sé stessi, alla propria capacità – messa a dura prova – di mantenere la salute mentale; alla propria vita, che non corrisponde a quello per cui si è tanto lottato; persino rispetto al proprio corpo, gracile, malaticcio, limitante.
Così la fuga, che dopo la perdita e l’alienazione è l’altro tratto distintivo del romanzo, assume i contorni di una fuga da sé stessi tentata ma mai riuscita, che si risolve in un perenne vagare disarticolato e senza senso, in miseria e pena. Eroe tragico moderno, Mittel è prigioniero di un percorso non scelto ma subito e tuttavia vissuto al massimo delle proprie possibilità, e perciò teneramente umano.
Quello che di più interessante caratterizza questo autore è il multistrato della sua scrittura: sembra sempre che, oltre le righe, voglia sussurrare al lettore qualcosa di più; a volte cerca di distrarre con elementi utili allo scorrere del racconto ma non al senso del messaggio – in questo caso per esempio la sottotrama del geologo belga, o la misteriosa Barranquilla – veri e propri MacGuffin letterari. Si è condotti per mano in un mondo altro, con una perfetta tessitura narrativa che l’autore svela poco per volta, senza fretta; l’impressione è di incredibile equilibrio e maestria, e di una ricchezza e profondità che si ritrovano solo nei grandi classici. A questo proposito si è detto che Cargo è il più conradiano dei testi di Simenon, e a ragione. La somiglianza a La linea d’ombra è evidente, non solo per l’ambientazione esotica, la vita di bordo o i presagi di follia e morte che aleggiano e tormentano gli uomini – che pure ci sono, e magistralmente evocati –, ma soprattutto per la potenza narrativa e simbolica della scrittura, che attraverso le parole di questi autori diviene il mezzo attraverso cui stimolare la partecipazione emotiva del lettore traslando l’individuale nell’universale: è questo che li rende sempre attuali, immortali.
Recensione di Violetta Marzano
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