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Anno edizione: 2016
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La vita in un campo profughi per un bambino ha il colore grigio delle recinzioni e del filo spinato, il sapore metallico della fame e della sete, il calore insopportabile di un sole che a ora di colazione “è già un lanciafiamme”.
Oggi Harvey, una delle Divise che fanno da guardia al campo, ha portato una piscina di plastica. Dal nulla, cominciano a sciamare bambini che si precipitano dentro la pozza d’acqua, un groviglio di mani e piedi che lottano per farsi spazio, e non importa se l’acqua ha già assunto il colore del terriccio e riesci a bagnare solo una parte piccola del corpo: la giornata è diventata d’un tratto buona.
Subhi chiude gli occhi e immagina le onde del mare che gli lambiscono le dita come una carezza. È nato nel campo profughi dopo che la madre è fuggita dal paese in guerra, e per lui il mondo ha i confini di quella rete, del cielo terso e della terra riarsa.
La piccola Jimmie ha perso la sua, di madre, quattro anni prima. Di lei le è rimasto soltanto un quaderno pieno di parole che non riesce a decifrare. A Jimmie piace esplorare, glielo ha insegnato il fratello, e c’è ancora un angolo che si trova giù a valle, attorno al quale aleggia “una specie di tristezza”, rimasto insondato. Una recinzione. Ma il fratello le ha anche spiegato che ogni recinzione ha un punto debole, e Jimmie ha deciso che è arrivato il momento di trovarlo.
Quando Subhi incontra Jimmie comincia a insinuarsi in entrambi l’idea di un futuro migliore, veicolato dalle storie che lui le racconta e dall’idea di riuscire a evadere, con le tinte accese della fantasia, da una vita troppo dura da digerire.
Il bambino che narrava storie è un romanzo dalla forza immaginifica, una vicenda toccante sul potere delle narrazioni e una denuncia dolorosa del trattamento riservato ai rifugiati nei campi profughi. Con una penna elegante e minuziosa, Zana Fraillon dipinge un mosaico dai tasselli iridescenti, dove la luce riflessa assume, a seconda delle angolazioni, i colori del fango o dell’arcobaleno dopo la pioggia.
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