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Romanzo più complesso, rispetto a quello d'esordio, ma non per questo meno convincente: nel linguaggio, nell'ingranaggio, soprattutto nella pietas pienissima per il personaggio, un po' losco in fondo, ma seguito passo passo come umanissimo, come potesse essere ognuno di noi. Incredibile come un giornalista sappia essere così veramente e pienamente scrittore!
Recensioni
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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1997, n. 2
Si dice sempre che per chi aspira a essere scrittore la prova della verità è il secondo libro. Paolo Di Stefano, giornalista culturale del "Corriere della Sera", aveva esordito due anni fa con "Baci da non ripetere", sempre Feltrinelli, premio Comisso, struggente viaggio in macchina di un emigrato, dalla Svizzera alla Sicilia, con il figlio bambino sul sedile posteriore come fosse placidamente addormentato mentre era morto di leucemia. Il secondo romanzo, "Azzurro, troppo azzurro", come suonava una famosa canzone di Conte e Celentano, è di nuovo centrato su una storia di emigrazione; questa volta però non si tratta di un emigrato che ritorna, bensì di un immigrato incapace di adattarsi alla vita disarticolata della metropoli milanese, non avendo più d'altra parte l'energia e la cultura per tornare indietro.
Questo scarto fra possibilità e impossibilità di ristabilire un rapporto con la terra natale è la differenza più sensibile fra il primo e il secondo romanzo. Mentre l'io narrante di "Baci da non ripetere" poteva immaginare nel ritorno a casa un lenimento allo strazio, un rifugio alla disperazione, il protagonista di "Azzurro, troppo azzurro" si è tagliato i ponti alle spalle, ha spezzato il filo della memoria e degli affetti, il suo meridione non è un'infanzia ma una preistoria. Molte sono le analogie tecniche fra un romanzo e l'altro. Identica in particolare è la struttura narrativa, giocata su monologhi a due voci e fondata su un elemento di unità temporale - là un viaggio, qui una notte -, all'interno del quale ricordi, flashback, riflessioni e confessioni si muovono come pesci nell'acquario. Ma l'atmosfera è diventata più cupa, da un libro all'altro.
"Baci da non ripetere" era gonfio di un grande sentimento, se pure lacerante, che ne faceva una metafora dell'impossibilità di convivere. "Azzurro, troppo azzurro" è svuotato di ogni passione: è vita stritolata sotto i parossismi della normalità quotidiana, dentro la scatola d'una socialità televisiva. Il personaggio di Rizzo, impiegato senza reale professionalità, a metà strada fra precariato e proletariato, proiezione e incarnazione di un immaginario che nasce dagli spot pubblicitari - l'automobile metallizzata e accessoriata, il frigorifero zavorrato al supermercato -, è perfettamente rappresentato, più che dai vaniloqui in cui si produce, più che dalle allucinazioni in cui precipita, dal sacchetto di plastica con cui avvolge il capo in un'alienante asfissia. Questa radicalità, questo azzeramento chiedono all'autore, per avvincere il lettore, una trama sapiente - abilmente risolta in chiave di giallo -, e una scrittura che recuperi, nelle sue pieghe e nella sua forza, i significati di un'angoscia che ci riguarda tutti. In questo senso, "Azzurro, troppo azzurro" è il secondo libro che si attendeva.
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