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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2022
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L'autore morì prima di portare a compimento questa autobiografia. Virginia Woolf, a tal proposito, ha scritto: "Tra le mani ci sembra di avere solo il preludio di ciò che stiamo per leggere, solo il primo assaggio di un banchetto che ci è stato ora e per sempre negato". James arriva a Liverpool dagli Stati Uniti nel marzo del 1869, per poi trasferirsi a Londra dove avrà occasione di incontrare personaggi importanti quali Gerge Eliot, Alfred Tennyson e James Russel Lowell. E' un racconto confuso, frammentario, di non facile lettura e anche noioso.
Basterà ricopiare la lunga frase d'apertura. Ogni altra chiosa è insensata. "Tutto dipende da che cosa si intende per giovinezza, trattandosi di un passaggio talmente delicato e mutevole da implicare un gran numero di sfumature. Non siamo mai davvero vecchi, perché non sappiamo rassegnarci a smettere d'essere giovani: la giovinezza è un'armata che schiera l'intero battaglione delle facoltà e tutta la freschezza unita a passioni e illusioni nella marcia forzata verso quel territorio nemico che è il regno della perdita di ogni freschezza; e penso capiti spesso di lasciare alle spalle qualche ritardatario, e di doversela vedere con riluttanti ribelli dell'ultima ora - ritardatari che non accettano di stare al passo con il proprio corpo, anzi determinati a non seguirlo affatto. Se vogliamo usare un'altra metafora, la giovinezza è come un'opera a più volumi racchiusa nella più ampia biblioteca della vita, con capitoli che si chiudono (al tonfo della copertina che ne sigilla le pagine), e altri che completamente aperti, magari bloccati dall'indice ancora impegnato a tenere fermo il segno fra i paragrafi".
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"Lavoriamo nel buio facciamo quel che possiamo diamo quel che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione è il nostro compito. Il resto è la follia dell'arte". Sono le ultime parole di Dencombe, il protagonista di Gli anni di mezzo, un racconto del 1895; Dencombe, l'artista anziano e malato che insegue fino all'ultimo istante della vita la possibilità di una "seconda occasione", perché il tesoro dell'artista la perla è il resto, ciò che è non-scritto, non-finito, perduto.
Middle years, "anni di mezzo": che metafora pregnante, o forse che ansiosa presenza doveva essere per Henry James questa immagine, se ne fece il titolo di uno dei più belli e toccanti tra i suoi "racconti d'artista", precipitandolo per di più in una vertiginosa mise en abyme (l'artista di The Middle Years ha appena terminato di scrivere il suo ultimo romanzo, The Middle Years), e la riprese molti anni più tardi, affidandole il compito di intitolare il frammento il non-finito appunto, il non-scritto, il resto che avrebbe dovuto costituire la terza parte delle sua "autobiografia" (titolo, invece, mai usato e certamente non amato da James), dopo A Small Boy and Others (Un bambino e gli altri, Neri Pozza, 1993, a cura di Sergio Perosa) e Notes of a Son and Brother, pubblicato in ponderosi volumi nel 1913 e 1914. Non fu pubblicato invece, se non postumo, Gli anni di mezzo, interrotto dalla Grande guerra e poi dalla morte di James nel 1916; un frammento, quindi, solo una cinquantina di pagine, ma, vien da pensare, così doveva essere, perché cosa sono gli "anni di mezzo" di Henry James se non l'infinita transizione verso un impossibile compimento e la tensione appagante e disperata al tempo stesso verso il disegno finito, l'arazzo i cui "fili sciolti" sarebbero stati tutti rintracciati e ricomposti nell'inarrivabile "figura nel tappeto"?
Lo sottolinea del resto, da par suo, Virginia Woolf nel bel saggio qui anteposto alle pagine jamesiane, quando ricorda la reazione incredula e divertita di James alle parole di qualcuno che incautamente si era azzardato a parlare della sua "opera completa": mai e poi mai, egli aveva risposto, per quanto a lungo gli fosse concesso di vivere, si sarebbe potuto parlare di "compimento", solo la fine della vita stessa avrebbe posto fine al flusso inarrestabile delle sue parole, delle sue figure, della sua scrittura.
Ma se "gli anni di mezzo" non hanno fine, è l'inizio che rincorrono a ritroso queste pagine avvolgenti e involute, esasperanti e inquiete (arduo e ingrato, quant'altri mai, il compito del traduttore) del vecchio scrittore alla ricerca, nella memoria, di quel momento magico ed epifanico, situato alla "fine della giovinezza", in cui l'arazzo comincia a delinearsi e a mostrare, nelle sue figure sconnesse e nei suoi fili sospesi, la promessa di un tesoro inesauribile di significato e mistero e bellezza, e di una prodigiosa avventura della mente in cui l'esperienza si fa passione e romanzo, gioco infinito di luci e ombre, di relazioni, riconoscimenti, connessioni.
È a Londra che comincia questo "ritratto dell'artista da giovane", o meglio a Liverpool, dove un James impacciato ed emozionato sbarcò, a ventisei anni, in un grigio, ventoso e opprimente mattino inglese; ed è Londra o, meglio, l'"esposizione" totale dell'artista a Londra ai suoi odori e colori, agli oggetti, i cibi, i rituali, i luoghi, le persone qualunque e i personaggi famosi la materia di questa recherche di un tempo lontano ma non perduto, conservato anzi ostinatamente e "salvato", con appassionata e tenera determinazione, nella sua alterità, nelle sue idiosincrasie, nella sua "mostruosa" e tutt'altro che accomodante "insularità". La Londra tardo-vittoriana di Dickens e Thackeray, delle carrozze e del puzzo di carbone, della luce "umida e fioca" e degli "eminenti gentiluomini" seduti a piccoli tavoli di legno nelle anguste salette dell'Albany a Piccadilly: è questa, ormai lontana dalla metropoli modernista che James vede crescere intorno a sé, la città che insegue invece, affastellando parole su parole, nella memoria estenuata di queste pagine. Ma non si tratta, si badi bene, di nostalgico rimpianto verso il passato o la propria giovinezza, bensì di un'operazione squisitamente estetica, e artistica, alla ricerca del terreno e dello spazio in cui la propria arte ha cominciato a "germogliare" (metafora frequentissima nella sua scrittura): uno spazio fitto e denso, attraente fino alla vischiosità, in cui si accumulano figure e oggetti e prospettive, in un intreccio di rimandi e corrispondenze che costituiscono per l'artista irrinunciabili punti di riferimento, gli "arredi" sui quali ha cominciato a costruire, misurando rapporti e proporzioni, la composizione del suo quadro e delle sue storie.
E di quadri e storie sono fatte anche queste memorie, il cui fascino intrigante sta non tanto nel ritrovare e riconoscere i luoghi e i personaggi di una Londra d'epoca già da altri raccontata (George Eliot o Tennyson, i salotti mondano-letterari o il club degli "eminenti vittoriani"), ma nel ritrovarli intessuti profondamente nella trama e nelle figure del discorso narrativo jamesiano, in quel continuo travaso (altra parola chiave) tra realtà e finzione, immaginazione e memoria, racconto e saggio e autobiografia, in cui si scrive la vita e vive la scrittura di Henry James. Ed ecco quindi apparire dal "baule" della memoria figure, nomi, episodi in tutto e per tutto "romanzeschi". Lazarus Fox per esempio, il suo padrone di casa in Half-Moon Street, "antico dignitario di un ordine arcaico", il maestro di cerimonie che orchestra con la sua sapiente e discreta bacchetta i primi passi del giovane James nel tempio chiuso e fumoso della City: tutto "vero" probabilmente (anche quel nome?), ma come non pensare al maggiordomo Brooksmith dell'omonimo racconto, o alle tante "figure di mezzo", anch'esse, che transitano nella narrativa il percorso formativo dei suoi protagonisti? O la onnipresente Mrs Greville, "così espansiva e voluminosa che avrebbe potuto essere lei stessa un sofà", vestale importuna e patetica dei salotti letterari (quante ne ha raccontate James nelle sue storie, e Greville Fane non è forse una delle sue più crudeli figure letterarie?). E infine l'episodio, sublime nella sua ironia, in cui James racconta come, nel "sacrario" di Tennyson a Eaton Place, egli abbia assistito incredulo allo scoronamento del Poeta Laureato, del grande Bardo: un uomo fatuo e gaffeur, un animale da salotto che "ruggisce" versi e banalità, un Tennyson totalmente "non tennysoniano". E, tanto più che poco più tardi viene ricordato Browning, come il genio poetico schivo e fragile e grande, come non pensare a quello splendido racconto del doppio, La vita privata, che ci mostra l'artista da salotto esibire tristemente la sua tronfia maschera pubblica, mentre in una stanza lontana e solitaria, nel silenzio e nella oscurità, il suo genio poetico compone febbrilmente il grande capolavoro?
Vecchio e vicino alla morte, più che mai fragile e solo, nell'oscurità della casa-rifugio di Chelsea, Henry James detta alla sua segretaria, giorno dopo giorno, questo fiume inarrestabile di parole. Non è il suo capolavoro nessuna delle sue opere lo è perché il genio artistico che lavora indisturbato lontano dalla vita è solo finzione. Il capolavoro mai-finito degli "anni di mezzo" è la ricerca affannosa della vita nell'arte e dell'arte nella vita: la storia di Henry James e della sua irraggiungibile figura nel tappeto.
Giovanna Mochi
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