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Questo terzo libro di MacIntyre, successivo a Dopo la virtù (1981), che riproponeva la nozione di virtù di Aristotele senza la sua metafisica biologistica, propone invece di restaurare proprio questa metafisica come base dell'etica, citando le ricerche di etologia che mettono in luce come i delfini siano in grado di avere delle credenze, anche se non un vero linguaggio. Al proposito si cercheranno invano i nomi di Plessner e Gehlen, che hanno lavorato sulle basi biologiche della cultura e che MacIntyre pare ignorare. MacIntyre sembra non avere letto anche altri autori: afferma che "i beni comuni di associazioni e relazioni" intermedie fra lo stato e l'individuo sono ignorati dal pensiero recente, salvo "rare eccezioni". I nomi di Taylor, Walzer, Sen, Etzioni non compaiono, e il lettore si chiede quali siano queste eccezioni. Adam Smith è citato come autore della contrapposizione fra benevolenza ed egoismo, ma la letteratura degli ultimi trent'anni ha ricostruito la teoria smithiana delle virtù, fra le quali la benevolenza è solo una, con una funzione ben delimitata. La tesi centrale è la stessa dei libri precedenti: le virtù servono a promuovere le caratteristiche peculiari dell'uomo in quanto animale razionale, con l'accentuazione della dimensione animale e quindi dei limiti organici degli esseri umani: malattia, handicap, vulnerabilità. C'è sufficiente materiale nuovo per giustificare un altro libro? Ne dubito. Si aggiunga, per il traduttore, che lo stato può ridursi a una "agenzia erogatrice di servizi pubblici", non a una "compagnia di utilità", che non vuol dire niente.
Sergio Cremaschi
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