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L’Irlandese è come l’Innominato manzoniano la cui identità non è mai svelata. Solo a fine romanzo, dopo 304 pp., la Baker parla di Beckett, cui questa novella dovrebbe essere un tributo. Sgraziato, direi perché Beckett esce molto malconcio da queste pagine; lui e la sua compagna Suzanne, sembrano due burattini manovrati da fili invisibili, senz’anima, senza personalità. Di poche parole, e spesso senza senso. La loro fuga da Parigi occupata il 14 Giugno dai nazisti, assieme ad una fiumana di sfollati verso il Sud non solo è descritta in modo caotico e disordinato (in effetti, tutto il romanzo manca di una trama, è ondivago e ripetitivo oltre misura) ma nulla aggiunge ai numerosi racconti, film, spezzoni storici in TV che raccontano in modo drammatico questi momenti e tutta l’occupazione della Francia. Baker non si preoccupa neppure di inserire queste due figure in un contesto storico dettagliato, che dia un senso alle loro azioni. Anche il dipingere il confuso e frastornato Beckett come un eroe della resistenza, che a Parigi invia messaggi in codice agli opponenti al regime e addirittura a Roussillon si aggrega al maquis è una burla e cosa ridicola: è un affronto al movimento partigiano, dato che Beckett, le pauvre, si spaventa quando imbraccia lo Sten o manipola una bomba a mano. Quel che resta di tutto il racconto sono i calzini e gli abiti puzzolenti, le scarpe sfondate, il bere Calvados ove possibile, mini-gesta di non-eroi. Molto meglio Mezzanotte a Parigi di Dan Franck, splendida descrizione di 5 anni di occupazione di Parigi, con Sartre, Camus, Malraux, Saint Exupery, Picasso, Gabin, Renoir, Celine, Cocteau, Chanel, la de Beauvoir, tutto il Gotha francese che vi turbina in mitiche pagine. E che dire di “Is Paris Burning”? La Baker fa franare il racconto in una miriade di episodi minuti e insignificanti, con una prosa barocca e ridondante e voli pindarici ad ogni frase, in similitudini spesso sgraziate e infelici.
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