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In questo 2016 in cui ricorrono tanti anniversari di nascita o di morte di personaggi cospicui (solo qui in Piemonte, Gozzano, Ginzburg e Augusto Monti), corre il rischio di passare completamente sotto silenzio proprio quello di uno dei personaggi più grandi della nostra storia recente: Massimo d'Azeglio. E per fortuna che Chantal Balbo pone rimedio alla nostra smemorataggine con questo bel libro, scorrevole, accattivante, che prende per mano il lettore e lo conduce a riscoprire la vita intensa, multiforme, brillante, di un uomo che fu, con leggerezza, ironia e autoironia, prima un pittore di successo, quindi uno scrittore politico dal vivace piglio giornalistico, un romanziere e memorialista (due suoi libri sono ancora oggi nei cataloghi di grandi editori nazionali (lo verifichi chi ama, come il sottoscritto, perdersi nei titoli di IBS) e poi, soprattutto, un politico e uno statista. E non uno qualunque, ma colui che seppe condurre il Piemonte neo liberale fra i marosi della politica dopo una guerra perduta, convincendo un re riluttante a mantenere in piedi lo Statuto, guadagnandosi per i posteri l'appellativo che lui stesso gli avrebbe affibbiato di "re galantuomo". E poi, via via, spingendo lo Stato a modernizzarsi, dissodando il terreno su cui avrebbe lavorato Camillo Cavour. E Cavour non solo ne capì il valore, ma più volte ne cercò la collaborazione. Il libro della Balbo di Vinadio ha il merito di rivolgersi al lettore non esperto, senza lasciare insoddisfatto quello più navigato, che pretende ricchezza di riferimenti e precisione, ricorrendo all'efficace espediente letterario di fare raccontare la vita dello zio al nipote Emanuele, intervistato da un giornalista londinese. E il lettore scoprirà così che questo nipote non è poi male neanche lui: filantropo, collezionista di fama internazionale, tanto che a Palazzo Madama a Torino e a Saluzzo (città a cui donò un palazzo arredato), ancora lo si ricorda con affetto per i suoi lasciti culturali.
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