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"Il racconto sono io. Se non parla di me, il racconto non parla di nessuno. Se parla di un altro, non è un racconto". E quello di David Albahari è un racconto davvero personale, dominato in ogni sua parte da quello che potremmo a buon diritto definire "io lirico". La narrazione, infatti, è quanto di più affine si possa immaginare alla poesia: elenchi di oggetti, stacchi spazio-temporali che poco o nulla concedono al principio romanzesco di verosimiglianza, situazioni oniriche, scene disparate legate l'una all'altra da nessi logici vacillanti, che poi a sorpresa esplodono in tutta la loro pregnanza. Le numerose riflessioni sulla scrittura stessa, inoltre, evidenziano di continuo la natura fittizia dell'opera, esponendola agli occhi del lettore in tutta la sua letteraria indecenza. Anche la faticosa ricerca dell'ispirazione e l'intenzione di scrivere un racconto che non è mai stato entrano a far parte della narrazione, acuendone la natura discontinua e paradossale. Da questo flusso magmatico di parole e immagini emergono il rapporto difficile con il padre, il dolore per la sua malattia e la sua morte, l'appartenenza alla cultura ebraica, il viaggio come ossessiva ricerca di qualcosa di ignoto. Viaggio che ci porta in Messico, negli Stati Uniti, in Canada, ma anche in Serbia e in Israele, sempre sul filo del pensiero del protagonista, in un itinerario che non rispetta carte geografiche e mappe stradali, ma che parte da un dettaglio insignificante per squarciare con violenza le labili difese dell'animo umano, inseguendo il ricordo, la sensazione, l'intuizione.
Ilaria Rizzato
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