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Un romanzo sull'impossibile ma ineludibile necessità di dirsi addio.
«Tra centinaia di anni, ammesso che l'umanità non si sia estinta e continui a leggere libri, se qualcuno vorrà capire cos'era la vita in Occidente tra la fine del ventesimo secolo e l'inizio del nuovo millennio non avrà modo migliore per farlo che leggere i romanzi di Don DeLillo» – Jennifer Egan
A Convergence, un'azienda tecnologica con una futuristica sede ultrasegreta nel deserto del Kazakistan, si possono conservare criogenicamente i corpi e le coscienze fino al giorno in cui la medicina potrà guarire ogni malattia. È qui che Ross Lockhart, magnate della finanza sulla sessantina, decide di portare la sua amatissima seconda moglie, gravemente malata. Eppure l'idea di continuare a vivere senza di lei è cosí insopportabile che Ross annuncia al figlio di prime nozze, lo smarrito e turbato Jeff, di volerla seguire in questa sfida contro il tempo, nell'attesa di tornare un giorno e vivere ancora insieme, per sempre. Attraverso gli occhi di un figlio, che vuole dedicarsi alla vita, e di un padre che la vuole sospendere, DeLillo si immerge negli abissi di un tema estremo e ne riemerge con qualcosa che è allo stesso tempo nuovo e universale.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Una delle migliori opere di uno scrittore fra i più importanti in circolazione. Un romanzo profondo e veramente inquietante, dialoghi, atmosfera e l'asettica ambientazione del laboratorio di criogenesi, con i suoi scienziati, futurologi, ospiti in attesa del proprio salto nel buio, i manichini, le finte porte, i lunghi corridoi spettrali, gli schermi apocatittici, fanno si che ogni pagina sia densa come magma, lacerante come lama aguzza. De Lillo nel pieno della maturità artistica, uno dei tanti capolavori dell'autore.
Primo libro che ho letto di Don Delillo e ne sono rimasto estremamente deluso, a parte le tematiche la costruzione narrativa è di una banalità incredibile, nonostante ciò riesce comunque a mancare di senso per la maggior parte del libro e, più incisivamente, ad utilizzare dei dialoghi che parrebbero scritti da qualcun* che si è appena approcciato alla filosofia e prova quindi un grande senso di mancanza, soprattutto di significato. Christian Raimo su Internazionale al riguardo ha scritto un'opinione che condivido. Almeno leggendolo si può imparare per esperienza sia che i "grandi" autori non sfornano sempre capolavori, sia che la qualifica di "grande" viene attribuita da un pubblico o da una critica che ha idee sulla letteratura, per quanto valide, molto diverse dalle nostre. Per me è solo una pretenziosa ma asettica installazione artistica
Un libro intenso, non facile ma che ti prende e ti avvolge nelle sue atmosfere inquiete. Il tema della morte è trattato con un linguaggio lucido e tagliente, senza concessioni a sentimentalismi.
Recensioni
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Zero K (244 pagine, 12 euro) di Don Delillo, tradotto da Federica Aceto, edito da Einaudi, è come il ronzio intermittente in una stanza di aspetto vuota, in un caveau, in un bunker, in un ambiente asettico. È un brusio di fondo a frequenza alterata, è un quasi-silenzio che perfora i timpani. A fare rumore è quel flusso di coscienza che descrive la vita, la analizza nelle sue scanalature interpersonali, nei suoi tic, nelle sue ossessive ripetizioni. Romanzo fastidioso, accidioso. La malattia, la morte, l’abbandono, la rinascita, il senso di tutto, il male, la guerra, l’orrore, la scienza, la filosofia, la consapevolezza, la tecnologia, il padre, il figlio, l’amore, la resilienza. Converge tutto in questo testo. E il verbo “ convergere” non è casuale.
Convergence è infatti il nome di un segretissimo centro sperimentale ubicato in una “crepa del deserto”, in Kazakistan, dove i malati terminali vengono conservati criogenicamente fino al loro risveglio, in un futuro depurato dalle malattie e dalle pulsioni bellicose degli uomini. Un ricco magnate americano, Ross, decide di ibernare la sua seconda moglie, Artis. Ma una vita senza di lei non è pensabile, non è semplicemente concepibile. Stabilisce quindi di seguirla in questo incapsulamento fisico e cerebrale, in questa “solitudine virginale” a cui il figlio di prime nozze, Jeff, assisterà inerme, coinvolto suo malgrado in una scelta esistenziale dove ciascuno ambisce ad essere “padrone della fine del mondo”.
La vena introspettiva
La vena introspettiva del libro incupisce un’atmosfera già di per sé ermetica e crepuscolare. I pensieri di Jeff scomodano Kafka, soprattutto nell’epilogo dove l’overdose di malessere, incredulità, stordimento e disapprovazione è scalzata da un allineamento perfetto e simmetrico tra cielo e terra, quel punto di equilibrio, – di convergenza appunto, – che il protagonista cerca disperatamente sin dagli albori della sua storia personale.
Recensione di Alessandro Orofino
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