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Lo avevo acquistato già da tempo, e lasciato indietro per varie ragioni, preferendogli nella lettura altre opere più note e ormai classiche. Pure “Zebio Còtal” è un libro necessario e indispensabile in quanto è storia ed è poesia a un tempo, contemplazione e esortazione a non commettere l’errore grande e fatale di perdere la propria vita dietro al rancore e all’odio. Sentimenti negativi, autodistruttivi e lesivi delle persone care sulle quali finiscono, come il fulmine sull’albero, per cadere. L’atmosfera di questo lungo racconto o novella, saporitamente introdotto da Pasolini, che di Cavani era amico e ne ammirava la poesia, mostra irrecuperabili toni cupi. Nello svolgersi della malinconica lunazione del narrare per Zebio l’ora della battaglia con la moglie derelitta e muta, contro la vivacità da perdigiorno dei suoi due figli minori da lui regolarmente e duramente puniti, specie dopo aver bevuto troppo, e in opposizione alla figlia che lo fronteggia sino a picchiarlo, sembra non voler mai tramontare. Odio chiama odio, e l’animo infiammato dal rancore avvelena ogni pensiero, ammorba ogni momento di lucidità; per questo il figlio maggiore si allontana definitivamente da casa, dopo aver salutato di nascosto una madre addolorata e succube del marito, più tardi seguito dalla sorella. Zebio è indebitato, cerca aiuto presso il fratello senza trovare compassione, né comprensione; gira randagio di locanda in locanda, si fa tanti nemici; perde il raccolto di grano; si esclude dal circolo familiare poco prima che la moglie muoia estenuata dalla pesante vita nei campi e dalla solitudine; viene arrestato anche se per pochi giorni per violenza domestica – mortificato, inviso alle altre persone del paese, povero, decide di perdersi: sia allontanandosi verso un altrove incerto, sia abbandonandosi alla vita del senzatetto. Il lavoro non fa più per lui, tutto gli sembra inutile eccetto continuare a odiare tutti, ad iniziare dalla sua sventurata famiglia che gli ha rubato il podere.
[2] Purtuttaquantavia – uso qui un avverbio superlativamente avversativo coniato dal Landolfi per un ubriacone pari al nostro Zebio – alla nefandezza della storia, grazie a Dio, si contrappone la levità della poesia, una leggerezza che non ha solamente un respiro letterario e stilistico, ma si riflette sul paesaggio campestre, oppure è la sua stessa purezza a illuminarla?, comunque sia la natura primaverile delle prime battute del racconto ha qualcosa di puro e luminoso. Una campagna verdeggiante dove i figli di Còtal scorrazzano raccogliendo e rubando frutta alla rinfusa e in fretta però felici, che si traduce anche liquidamente in paesaggio interiore, di anime. Ma proprio su un verde prato accade il fatto: Còtal fuori controllo pesta selvaggiamente suo figlio, quello più debole, sofferente di cuore. La cosa non passa inosservata, e per la violenza inaudita e, poi, per la morte repentina del giovane, trovato qualche tempo dopo esanime su di un sentiero del bosco. Da allora, malgrado un certo distacco anche dal dolore, Zebio si converte alla violenza, che lo assorbe, lo prende tutto, e gli impedisce di prendere una decisione equilibrata su se stesso e sulla sua famiglia. Ogni cosa diventa vanità, ombra nei suoi occhi allucinati dal male: difatti “di quale uomo i vermi non rodono le radici?” (Landolfi), che è come dire: chi non soffre del peccato di origine, quel peso oscuro ereditato che vorrebbe portarlo a fondo con sé? Egli cedendovi si sacrifica alla rovina, non crede più in se stesso e, terribile cosa, nella bontà umana di fondo; e lugubre e irosa – impressionisticamente intensa – sarà la sua fine, in inverno, sbalzato dal rimorchio di una camionetta sul terreno gelato – solo, neanche più capace di riconoscere (né riconosciuto) i suoi figli. Un mendicante barbuto che si trascina nella tormenta e ahimè votato alla ‘damnatio memoriae’. Un uomo da salvare che testardo decide di non essere salvato.
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