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È un agile volumetto, questo sul western scritto da Clélia Cohen, già collaboratrice dei Cahiers du cinèma ed esperta del cinema classico hollywoodiano. Affronta questo tema dalle proporzioni immense con il coraggio di chi non si lascia intimidire dall'argomento, ma anche con l'atteggiamento di una critica che mette al di sopra di tutto la consapevolezza di svolgere una funzione divulgativa e, dunque, fuori dalla presunzione di dover dire per forza cose che altri non hanno mai detto. In tale prospettiva, colpisce l'attenzione con la quale si dedica a rendere le informazioni semplici ma al tempo stesso vive, secondo il principio dell'accessibilità alla materia trattata. Senza voler esagerare, credo che siano questi i libri sul cinema che si leggono più volentieri, intanto per un fatto di immediatezza di linguaggio, ma anche perché amiamo ritenere che il leggere di cinema debba costituire uno stimolo allo spettatore di film e non un esercizio fine a se stesso o, al massimo, rivolto a pochi e intimi eletti.
È anche attraverso questa "leggerezza" della critica, che non è "superficialità", che si può salvare il cinema dall'affossamento nell'ambito del puro esercizio specialistico. "L'elemento di esaustività possibile e il solo intento riconosciuto di questo libro è di porre qualche base, fornire qualche traccia, e soprattutto di stimolare la curiosità di andare a scoprire da sé tutti i cliché che si ricompongono ogni volta in maniera inedita", sottolinea l'autrice, confermando l'esigenza di un percorso critico che vede nel lettore/spettatore una componente essenziale del processo di interpretazione. Un lettore/spettatore che sia ulteriormente sollecitato a vedere, a partire da uno spunto critico, tutte quelle "sagome, gestualità familiari, situazioni familiari che si rinnovano senza fine". Secondo quello che Cohen definisce "il grande piacere di un genere", privilegiando un approccio impressionistico alla materia che tende a rifuggire dai grandi sistemi di interpretazione (ma offrendo alcune coordinate di base di tipo storico e culturale) in funzione di un approccio che tenda a non allontanarsi mai dal potere di suggestione espresso dalle immagini, dalla riproposizione di alcune sequenze emblematiche, dalla ricostruzione dello sforzo espressivo di chi le ha costruite.
Interessante, per questa ragione, la seconda parte del libro dedicata a testi, documenti e testimonianze. È qui, ad esempio, che viene ripreso il celebre intervento di Andrè Bazin nella raccolta di scritti Che cosa è cinema? in cui il critico francese sottolineava: "Il problema fondamentale del western contemporaneo risiede nel dilemma dell'intelligenza e della semplicità. Oggi il western di solito può continuare ad essere semplice e conforme alla tradizione solo se è volgare e idiota. Vi è tutta una produzione di basso profilo che persiste su queste basi. Il fatto è che dopo Thomas Ince e William Hart il cinema si è evoluto. Il western, genere convenzionale e semplicistico nei suoi motivi originari, deve tuttavia diventare adulto e intelligente se vuole porsi sullo stesso piano dei film degni di essere criticati. Così sono comparsi i western psicologici, a tesi sociali più o meno psicologiche: i western significanti". Il fatto è che il western ha continuato a evolversi, mescolandosi con gli altri generi proprio come hanno fatto tutti, impugnato di tanto in tanto da qualche autore lusingato dalla possibilità di potervisi misurare per esprimere in filigrana la propria visione del mondo. Chissà che adesso, in un momento in cui l'America sembra guardare con inedito e sincero interesse al proprio passato e ai suoi valori, il grande pubblico ritorni ad appassionarvisi, abbandonando pregiudizi e presunzioni.
Umberto Mosca
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