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recensione di Ponti, D., L'Indice 1996, n. 3
La trilogia del "Wallenstein* (1796-99) seguì, come è noto, a dieci anni di silenzio drammaturgico, nei quali Schiller si dedicò a intensi studi storici e filosofici. La figura del leggendario condottiero della guerra dei trent'anni, fiducioso di potersi riservare fino all'ultimo la possibilità di scelta tra la fedeltà all'Imperatore e il tradimento, e tragicamente sopraffatto dagli eventi da lui stesso inconsapevolmente messi in moto, gli dava modo di trasformare in materia scenica il tema che più lo aveva appassionato anche nei suoi studi, quello dello scontro tra libertà individuale e necessità. Dominando magistralmente la vastissima materia Schiller inaugurava così il periodo più maturo della sua arte teatrale.
Questo dramma schilleriano - certamente il più ampio e complesso - ha stimolato traduttori illustri. Lasciando da parte quelli più lontani da noi, come Andrea Maffei, la cui versione risulta oggi ostica nel suo pomposo manto ottocentesco, dobbiamo citare almeno G.A. Alfero, Leonello Vincenti, Barbara Allason e Massimo Mila. Si sentiva dunque la necessità di un'altra traduzione?
Bisogna dire innanzitutto che tutte le traduzioni citate, anche se inserite in edizioni relativamente recenti, risalgono in realtà agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Anche la versione di Massimo Mila, comparsa nel 1993 nella collana einaudiana "Poeti traducono poeti", è del 1946. Ma non è solo la vera o presunta attualità a fare di questa nuova edizione italiana un'allettante alternativa alle precedenti.
Una prima caratteristica, molto opportuna per un classico letto oggi prevalentemente a scopo di studio, è quella di avere il testo originale a fronte. Il taglio "didattico" emerge anche dall'attenzione a particolari che permettono al lettore di meglio orientarsi, come i numerosi sottotitoli in margine alla documentata introduzione e il numero della scena e dell'atto in testa a ogni pagina.
Ma l'aspetto precipuo di questa traduzione è di non essere in prosa. Maria Teresa Mandalari dichiara di ritenere la scelta del verso una scelta quasi obbligata. Innanzitutto per un debito verso le intenzioni dello stesso Schiller, che, maturata dopo molti tentennamenti la convinzione che "è impossibile scrivere un poema in prosa", in pochi mesi di frenetico lavoro rifece la prima stesura in pentapodie giambiche. Ma soprattutto perché il ritmo compenetra talmente la struttura drammatica, da richiedere - sempre per la traduttrice, cantante lirica oltre che germanista - di essere rispettato almeno parzialmente anche nella traduzione. Il ritmo (che Schiller pare si propiziasse obbligando i familiari a suonare al pianoforte melodie incalzanti nella stanza accanto) scandisce infatti la diversa atmosfera drammatica e musicale di ognuna delle tre parti del poema: dall'ouverture corale del "Campo di Wallenstein*, attraverso il crescendo de "I Piccolomini", dove l'azione, vagheggiata da Wallenstein come progetto, comincia a sfuggirgli dalle mani, fino all'epilogo tragico ("Morte di Wallenstein*), quando il protagonista scopre che una scelta non è più possibile.
Ma come si manifesta questa fedeltà traduttiva? Non in una totale equivalenza di lunghezze o di accenti, oggi difficilmente realizzabile e forse neppure sostenibile. I "Blankverse" vengono solo raramente trasposti in endecasillabi italiani, lo schema metrico che meglio li restituirebbe ("O seiner Fehler nicht gedenket jetzt", "O non pensate adesso ai suoi difetti"). Mandalari sceglie prevalentemente una forma libera, che rende i versi, presi uno per uno, equivalenti alla prosa ("Es war die erste Mu e meines Lebens", "- stata la prima vacanza della mia vita"; "Es gibt ein andres Glück und andre Freuden", "Esistono altre gioie, altre felicità"). Anzi può addirittura accadere che singoli versi siano resi in modo più fedele alla metrica originaria da traduzioni dichiaratamente in prosa, come nel caso del verso 870 de "I Piccolomini": "Wei t du nicht mehr zu sagen als ein andrer", tradotto dalla Mandalari "Non ne sai più di ogni altra persona" e da Mila con un ritmatissimo endecasillabo celato nel corpo del testo: "Né tu n‚ un altro lo saprà mai dire". Si tratta in questo caso ovviamente solo di una curiosità; non sembra però del tutto fuori luogo chiedersi se la riproduzione puntuale del ritmo giambico in un maggior numero di casi (non traducendo ad esempio "Ihr Wille, wissen Sie, war stets der meine", ("Come sa il Suo volere è stato sempre il mio", ma "Il suo voler, lo sa, fu sempre il mio") non avrebbe rafforzato anche l'andamento ritmico dell'insieme.
In che cosa dunque questa traduzione risponde al suo scopo di rispettare, se non nel singolo verso, almeno globalmente, quella che la traduttrice definisce la "dinamica armonica" del poema? Innanzitutto nel parallelismo visivo, aspetto non trascurabile specialmente in una traduzione con testo a fronte. Anche il "ritmo" grafico, si sa, ha il suo significato e anche su di esso si fonda la musicalità della lettura e della recitazione. L'equivalenza della sostanza ritmica è ottenuta con lunghezza del verso, le cesure, gli 'enjambements'. E poi negli esempi di ricostruzione felice dell'atmosfera musicale di molti passi, nei quali si può riudire l'andamento "ora trascinante ora incalzante, ora disteso ora concitato, ora melodico ora ben scandito e nervoso" del testo originale. Valga per tutti il largo incipit de "I Piccolomini": "Spät kommt Ihr - Doch Ihr Kommt! Der weite Weg, / Graf Isolani, entschuldigt Euer Säumen", "Tardi giungete - ma pur eccovi qui! La lunga via, / conte Isolani, giustifica il ritardo".
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