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Wallenstein - Friedrich Schiller - copertina

Descrizione


“Perchè Mila avrà scelto, di Schiller, proprio quest’opera così vasta, impegnativa e largamente dimenticata?” La risposta che “s’impone fin da principio è il semplice fatto che sitratta di un’opera che ha per tema la guerra, ma il “Wallenstein” era un dramma scritto contro la guerra e la deformazione che essa provoca dei rapporti pubblici e privati.Dalla Nota di Cesare Caesas

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Dettagli

1993
1 gennaio 1997
361 p.
9788806131937

Voce della critica

SCHILLER, FRIEDRICH, Wallenstein

KAFKA, FRANZ, Il fochista

BASSNETT-MC GUIRE, SUSAN, La traduzione. Teorie e pratica
recensione di Ponti, D., L'Indice 1994, n. 1

Tre libri usciti nel '93 ci riportano per vie diverse al tema della traduzione. Si tratta di volumetti di formato ridotto, dissimili per contenuto e veste editoriale, accomunati dalla riflessione esplicita sul lavoro del traduttore. Nel quarantanovesimo volume della collana einaudiana "Scrittori tradotti da scrittori" Massimo Mila al termine della traduzione del "Wallenstein* di Schiller riflette sulle scelte compiute. In appendice al racconto di Kafka "Il fochista" Magda Olivetti espone alcune "regole e regolette" desunte dal lavoro sul testo insieme ai suoi allievi nella Scuola europea di traduzione letteraria. Negli "strumenti Bompiani", collana diretta da Umberto Eco, compare infine uno studio di Susan Bassnett-McGuire, "La traduzione. Teorie e pratica", nato per un pubblico anglofono, ma corredato in questa edizione di esempi che interessano più direttamente il lettore italiano.
Basta leggere le prefazioni di traduttori in epoche e luoghi differenti per rendersi conto di quanto i criteri scelti dai singoli riflettano anche il ruolo della traduzione in una determinata società. Chi è il traduttore? si chiede Susan Bassuett-McGuire, colui che "prende a prestito abiti", "riflette luce", "cerca gioielli in uno scrigno", secondo le metafore più diffuse nel Rinascimento; oppure colui che, conformemente all'immagine servo-padrone dominante nel XIX secolo, si avvicina con umiltà al testo di partenza, o, viceversa, si propone di "migliorarlo" e "civilizzarlo", soprattutto se proviene da culture lontane; o ancora il "cannibale che divora il testo di partenza in un rituale il cui fine è la creazione di qualcosa di completamente nuovo", secondo una metafora introdotta recentemente da alcuni traduttori brasiliani? In questo caso il superamento dell'interpretazione eurocentrista del cannibale come cattivo esemplifica nel modo più convincente il legame tra concetto di traduzione e contesto culturale.
Il ruolo della traduzione, le relazioni tra testo di partenza e testo di arrivo, la questione dell'equivalenza e dell'"intraducibilità" sono i problemi continuamente ripresi in un dibattito che si perde nella notte dei tempi, e sui quali oggi dalle varie prospettive disciplinari (linguistico, teoria letteraria, storia culturale, filosofia, antropologia) si cercano nuove risposte. Sul fatto che la traduzione debba essere valorizzata anche in quanto scienza l'autrice non ha dubbi. Dalla teoria tuttavia, avverte, non ci si deve aspettare un insieme di regole per effettuare la traduzione perfetta: la comprensione dei processi traduttivi può essere d'aiuto, ma non sostituisce l'atto creativo, che fa di ogni traduzione un unicum e accomuna scrittore e traduttore.
La parentela tra traduttore e scrittore appare, almeno a prima vista, tanto più stretta nel caso in cui scrittori traducano scrittori, come nella collana einaudiana inaugurata da Primo Levi con "Il processo" di Kafka. Una felice scrittura non è però, evidentemente, il solo requisito richiesto a un buon traduttore. Condizione indispensabile è la familiarità con tutti i registri della lingua dell'originale, senza trascurare i più colloquiali. Prendiamo come esempio la traduzione delle espressioni idiomatiche, spesso non facili da reperire nei dizionari. Anche Massimo Mila, traduttore dei quasi ottomila versi del "Wallenstein* nell'inattività forzata dei carcere politico fascista (l'edizione einaudiana riprende quella della Utet del 1946), non ne riconosce alcune, altrimenti non tradurrebbe 'da geht der Teufel los' con "ma che il diavolo se lo porti" o 'woran Liegt es' con "a che punto siamo". Una revisione editoriale sarebbe forse stata opportuna anche per eliminare alcune vere e proprie sviste, del resto comprensibili in un testo di tale ampiezza, come ad esempio 'Lowe' tradotto con "lupo", 'vierzig' che è qui "quattordici", 'menschlich' che da "umanamente" diventa "amaramente".
L'interesse della collana di Einaudi risiede, si diceva, anche nel commento con il quale ognuno degli scrittori-traduttori conclude il proprio lavoro. Per Mila la traduzione di un testo teatrale deve essere adeguata alle consuetudini linguistiche del momento in cui si vive. Ogni generazione deve ritradursi i suoi classici, se non vuole che risultino oscuri alla lettura e incomprensibili alla recitazione, se non a volte addirittura involontariamente comici. Nel caso del "Wallenstein* si trattava dunque di evitare le "lambiccate locuzioni poetiche" e le "costruzioni inverosimilmente contorte" della traduzione più nota di Schiller, quella ottocentesca di Andrea Maffei, in versi. Per questo Mila oprò per una "disadorna versione in prosa", pur riconoscendola non sempre adatta a rendere il tono necessariamente concitato e magniloquente del testo schilleriano. Anche Cesare Cases, nella sua nota alla traduzione - dopo aver interpretato la scelta di Mila come un segno dell'insofferenza contro l'enfasi e la retorica che "sia pur illegittimamente potevano ricollegare Schiller all'enfasi e alla retorica contro cui Mila si era battuto e si batteva" - sembra suggerire che alla retorica barocca che "fa capolino in Schiller" potrebbe a volte essere confacente anche la magniloquenza di Andrea Maffei. Del resto nel più barocco dei passi della tragedia, la famosa predica del cappuccino, Mila dovette, per sua stessa ammissione, accogliere alcune delle ingegnose trovate di Maffei.
In realtà le soluzioni originali di Mila, più numerose di quanto egli stesso modestamente non volesse far credere, appaiono altrettanto ingegnose: "[Und die Armee...] / Kummert sich mehr um den Krug als den Krieg, / Wetzt lieber den Schnabel als den Sabel, / Hetzt sich lieber herum mit der Dirn, / Fribit den Ochsen lieber als den Ochsenstirn".
Traduce Maffei - e il suo corsivo sottolinea con una certa compiacenza i girelli di parole: "... più faccenda / Le bottiglie gli dan che le battaglie; / Mena fendenti, ma co' denti; in volta / Corre colle baldracche e mangia il bue / Anziché trangugiarsi il Frontebue".
Traduce Mila senza farsi vanto dei giochi di parole riusciti: "... s'occupa di bottiglie assai più che di battaglie, usa la pancia assai più che la lancia, a caccia va piuttosto di ragazze, e preferisce far strage di buoi piuttosto che dei nemici suoi", e rinuncia saggiamente al bisticcio del resto incomprensibile, con il quale Maffei traduce "impavidamente" la coppia di parole Ochsen (buoi) e Ochsenstirn (nome del comandante svedese).
Si confronti a questo proposito anche la traduzione di Barbara Allason nel "Teatro" di Schiller (Einaudi, "I Millenni"): "... si preoccupa più di bottiglie che di battaglie, preferisce usar la pancia che la lancia, sbattersela con le bagasce e menar le ganasce, e più che pensare al generale Oxenstierna, pensa a sé e a riempir la giberna".
Il passo prosegue; "Und das romische Reich- dab Gott erbarm! / Sollte jetzt heiben romisch Arm, / Der Rheinstrom ist worden zu einem Peinstrom, / Die Kloster Sind ausgenommene Nester, / Die Bistumer Sind verwandelt in Wusttumer, / Die Abteien und die Stufer / Sind nun Raubteien und Diebesklufter, / Und all die gesegneten deutschen Lander / Sind verkehrt worden in Elender _".
Maffei: "... e se l'aiuto / Del Signor non provvede, il Sacro Impero / Dirà tra poco: Io pero! Il fiume Reno / Ha più lutti che flutti. Ogni convento / Ora è covo del vento; i santuari / Spelonche diventar di sanguinari; / E fino i tabernacoli di Cristo / Son fatti ricettacoli del tristo! / Così che la fiorente e benedetta / Tedesca plaga con ragion potrebbe / Dirsi tedesca piaga.
Mila: "... e il Romano Impero - che Dio n'abbia misericordia!-dovrebbe dirsi piuttosto il romano cimitero. Un fiume di pene è diventato il fiume Reno, di neri inchiostri son macchiati i chiostri, i vescovi son mutati in discoli, abbazie e capitoli son piuttosto ruberie e pericoli, e le terre tedesche, un tempo sì felici, ora sono completamente a terra".
Allason: "... e il sacro romano impero - che Dio ne scampi! - sembra un cimitero. Il fiume Reno è diventato un fiume di pene, i conventi nidi di serpenti, i vescovadi tane di masnade, le abbazie e i seminari covi di incendiari, e le benedette terre della patria tedesca un paese di miseria e di tresca".
Come si può notare, sia Mila, sia la Allason ricorrono a rime e assonanze per rendere gli intraducibili bisticci originati spesso da sinonimie e storpiature di parole composte.
Di ben altro genere sono le sfide poste al traduttore dall'essenzialità del testo di Kafka. Come nota Magda Olivetti nell'appendice, la scrittura kafkiana "scorre limpida, è piuttosto scarna, il lessico non e straordinariamente vario n‚ ricercato, le metafore pressoché inesistenti". La lingua è estremamente precisa, e "proprio in virtù della limpidezza semplicità ed esattezza di contorni con cui le immagini ci vengono offerte dall'autore, il processo della traduzione diventa tanto più arduo".
L'ipotesi traduttiva dalla quale muove Magda Olivetti è che per ricostruire la scrittura "in bianco e nero" di Kafka, la sua "meticolosità dinamica", occorra non essere troppo letterali, perché ciò che è semplice e limpido in tedesco non lo è sempre in italiano. La ricerca di un'equivalenza richiede spesso un rimaneggiamento sintattico, le infedeltà apparenti nella costruzione di singoli segmenti garantiscono meglio la resa di un intero periodo, che viene salvaguardato nel suo insieme. Sempre però facendo molta attenzione a non cedere alla tentazione di sovrapporre il nostro modo di scrivere a quello dell'autore: questo i traduttori non dovrebbero farlo mai, ricorda la Olivetti, "neppure gli scrittori-traduttori n‚ i traduttori dotati di Un'ottima penna.
Possiamo dar atto a Magda Olivetti e ,ai suoi allievi che, quando si discostano da una superficie del testo tedesco, non lo fanno "per rendere scorrevole ciò che fluido non è neppure nell'originale", ma per riprodurre nell'italiano, con mezzi diversi, la geometria kafkiana. Anche se in italiano le pause sono scandite da virgole, e in tedesco no, anche se una forma verbale italiana (rompendo) si aggiunge a esplicitare ciò che in tedesco è affidato alla pregnanza del prefisso (hinein), anche se aggettivi avverbi e sostantivi si scambiano il posto, incrociandosi, il respiro è lo stesso: "In diesem Augenblick ertonten drauben in weiter Ferne in die bisherige volkommene Ruhe hinein kleine kurze Schlage, vie von Kinderfuben, sie kamen naher mit verstarktem Klang, und nun war es ein ruhiger Marsch von Mannern" diventa: "in quell'istante, fuori, lontanissimo, rompendo il perfetto silenzio di prima, risuonarono brevi piccoli colpi, come di piedi infantili, si avvicinarono con fragore crescente, ormai erano passi d'uomini, una marcia tranquilla".
Questa appendice è un esempio di quanto dovrebbe sempre uscire, insieme al prodotto finito, dal laboratorio del traduttore. Se ogni traduzione arricchisce e completa il bagaglio di esperienza del singolo, un consuntivo esplicito posto in calce a ogni traduzione contribuirebbe per così dire alla creazione di un bagaglio comune dei traduttori letterari. Note e appendici di questo tipo dovrebbero contenere, senza pretesa di sistematicità, accanto a principi generali che il traduttore fa propri, le osservazioni puntuali nate da una lettura attenta del testo di partenza e dalla consapevolezza delle possibilità delle due lingue a contatto. Proprio come fa questa succinta esposizione, quando ad esempio passa in rassegna alcuni tra i punti che il traduttore dal tedesco in italiano con l'esperienza impara a riconoscere: l'improponibilità di troppe secondarie esplicite in italiano, da alleggerire con l'uso di strutture implicite, come il gerundio che il tedesco non conosce, o i participi passati in luogo delle frasi relative; la necessità di rendere i troppi nomi astratti con altre parti del discorso, come forme verbali, di distribuire gli aggettivi prima e dopo il nome, e così via. Molte altre "regole e regolette", valide per ogni traduzione dal tedesco, vengono dedotte da questo breve testo. Tra di esse l'enorme varietà di locuzioni con cui si debbono spesso tradurre i verbi modali. Purtroppo la più semplice delle regole, quella di evitare la traduzione degli aggettivi possessivi, viene resa incomprensibile dai numerosi errori di stampa di questa edizione, che si addensano particolarmente nell'appendice.

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Friedrich Schiller

1759, Marbach am Neckar (Stoccarda)

Figlio di un modesto ufficiale, nel 1773 Friedrich fu accolto come cadetto nell’accademia militare del duca Carlo Eugenio del Württemberg, per prepararsi a entrare al servizio del duca. Vi studiò giurisprudenza e poi medicina, dedicando però il suo tempo migliore alla lettura di Klopstock, Bürger e Goethe. Alla fama giunse giovanissimo con I masnadieri (Die Räuber, 1781), la cui prima rappresentazione nel 1782 al teatro nazionale di Mannheim (era stata vietata nel Württemberg) ottenne un successo immediato e grandioso. Questo dramma, che appartiene idealmente allo Sturm und Drang, attaccava le istituzioni politiche e sociali del tempo con violenza; ma Schiller mostrava anche l’aporia della ribellione irrazionale del suo eroe, la cui grandezza...

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