Viviane Élisabeth Fauville ha rappresentato in Francia un vero e proprio caso editoriale. Le Éditions de Minuit, tra le più blasonate nel panorama editoriale d'oltralpe, non presentavano al pubblico un esordiente da più di vent'anni. La leggenda vuole che Julia Deck, addetto stampa e poi segretaria di redazione per vari giornali francesi, una mattina qualsiasi del maggio 2011 abbia infilato una prima stesura del romanzo nella buca delle lettere della casa editrice e neppure tre giorni dopo sia stata chiamata da Irène Lindon in persona (figlia di Jerôme Lindon che negli anni d'oro dell'editoria parigina aveva tenuto a battesimo nomi del calibro di Duras, Robbe-Grillet, Butor, Deleuze, Sarraute) per la firma del contratto. Se le cose siano andate davvero così, oppure se il libro abbia conosciuto una trafila editoriale meno eclatante non è dato sapere e non è alla fine neppure troppo significativo. La cosa importante è capire invece perché un thriller(niente più che una consueta storia di omicidio e delle successive indagini per trovare il colpevole) sia stato scelto tra i testi di punta per la rentreée littéraire del 2012 da parte di una casa editrice così lontana, per catalogo e tradizione editoriale, dalla letteratura di genere. Che cosa ha di particolare il libro di Julia Deck? Perché un noir dovrebbe risultare interessante anche per un pubblico lontano da omicidi, commissari e prove a carico? Viviane Élisabeth Fauville è un libro costruito su una scomparsa. Scomparsa ancor prima che di una presenza fisica, di una voce ad alto contenuto simbolico: uno psicanalista. Il dottor Sergent, medico alla moda nella Parigi dei palazzi alto-borghesi tra Invalides e Bois de Boulogne, ucciso un certo lunedì 16 novembre dalla sua paziente Viviane Élisabeth Fauville, come lei stessa ammette nelle prime pagine del libro. Apparentemente dunque, il romanzo di Julia Deck sembrerebbe un testo senza troppi misteri. Il morto, lo conosciamo da subito, l'abbiamo visto steso a terra in una pozza di sangue appena iniziata la lettura. L'assassino, anche. L'arma del delitto, un coltellaccio da cucina, ci viene coscienziosamente descritta da Mme Fauville stessa nel momento in cui la sta lavando per poi rimetterla al suo posto nella casa, ora disabitata, della madre morta da qualche anno. Non rimane quindi che seguire i passi delle indagini giudiziarie, prima goffi, poi via via più veloci e senza inciampi, per arrivare alla cattura del colpevole. Se apparentemente, dal punto di vista del semplice tessuto narrativo, il testo sembrerebbe dunque non riservare alcuna sorpresa, con il procedere dei capitoli qualcosa inizia a non quadrare. La verità dei fatti, la verità dell'atto delittuoso, perfettamente in luce nell'immagine iniziale di una coltellata inferta da una paziente al proprio medico, progressivamente si fa immagine incerta, continuamente ri-narrata, ri-raccontata da voci sempre diverse, da un io che chiaramente coincide con quello di Viviane Fauville, ma anche da un lei-elle, un lei-vous, da un misterioso noi. Chi sono questi soggetti pronominali? A chi appartengono queste voci che parlano in prima persona singolare, in seconda, in prima plurale, seguendo un continuo spostamento di sguardo e di prospettiva talmente altalenante da risultare quasi fastidioso? Un narratore dopo l'altro, un soggetto pronominale dopo l'altro, innumerevoli porte, innumerevoli squarci di un quotidiano appena accennato si aprono per poi immediatamente richiudersi, innumerevoli bocche bisbigliano per poi subito tacere in una rete sonora composita, mai esausta. Al centro della rete il lettore, preso in trappola dal gioco linguistico di una narrazione ossessiva, dal dispiegarsi (intorno al nucleo senza sbavature del delitto) di una tela di ragno fatta di voci plurime, nevrotiche, abitatrici di un mondo claustrofobico, popolato da fantasmi. Le voci cercano via via di cancellare le prove, si fanno interrogare dalla polizia, odiano il loro psicanalista e il suo ricordo. Le voci spesso discordano tra loro per piccoli particolari, sull'orario di certi avvenimenti, sulla posizione di certi oggetti, costringendo il lettore a riandare indietro nel testo, a controllare, a utilizzare il romanzo come un vero e proprio paradigma indiziario, un'esibizione di tracce, un repertorio di sintomi. Le voci alla fine non ce la fanno a reggere il peso del loro delitto e crollano, facendosi rinchiudere nel reparto psichiatrico dell'ospedale accanto al Palazzo di Giustizia, sedate a forza di pillole e iniezioni. Perché le voci plurime, di fatto, sono tutte il prodotto di un unico soggetto, di un'unica personalità nevrotica, o meglio psicotica dal momento che la scissione dell'io di Viviane Fauville potrebbe essere perfettamente rubricata come una delle tante patologie che riempiono i manuali di psichiatria. Quello che rubricabile non è, è invece la sua abilità linguistica, la capacità di una folle di raccontare storie, di creare mondi perfettamente credibili prendendosi gioco della polizia, dei parenti del defunto, e in ultima analisi, come si vedrà alla fine, del lettore stesso. Isabella Mattazzi
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