"Il figlio dell'ingegnere dagli occhi grigi" faceva la sua comparsa già in 19 (2001), il libro in cui Edoardo Albinati attraversa Roma a bordo di un tram. Il figlio dell'ingegnere è l'autore stesso, che ora affronta sino in fondo questa definizione di sé. Figlio, innanzitutto; e di quell'ingegnere difficile da capire: "Era un uomo spaventosamente ambiguo. In apparenza calmo e freddo, fino a farmi pensare che fosse indifferente alla maggior parte dei problemi degli altri". Ma è proprio così? Vita e morte di un ingegnere, fin dal titolo, manifesta la volontà di recuperare un personaggio (una persona) nella sua interezza, di analizzarlo e interrogarlo fuori dal complesso e ambiguo romanzo in cui era immerso (la sua vita). Si potrebbe pensare a questo libro come a un "a parte" rispetto a un romanzo possibile, perché Albinati isola istanti, esamina frammenti di esistenza, oggetti, frasi; sottrae al flusso del romanzo possibile e della vita qualcosa da mettere sotto una lente di ingrandimento. È come se, dopo aver scritto Papà Goriot, Flaubert ripensasse Goriot fuori dal romanzo, ne investigasse ulteriormente la natura, il carattere "a posteriori" rispetto al romanzo e alla sua trama, isolato da quella trama, e dovesse tenere conto che Goriot è suo padre. Così, il romanzo dell'ingegnere è come se, da qualche parte, fosse già scritto, e Albinati volesse tornarci sopra, come un critico, come un investigatore sempre più coinvolto, implicato. Nelle prime pagine c'è uno sguardo più distante: non freddo, semmai distaccato. "Dopo la sua morte non ho trovato niente di interessante nel suo guardaroba" scrive Albinati e fa tornare in mente il gesto che apre L'invenzione della solitudine di Auster (insieme a Patrimonio di Philip Roth, uno dei memoir più intensi degli ultimi vent'anni sulla morte del padre vista da un figlio). Si assiste come al passaggio da una serie di soglie, filtri, intralci: tutto ciò che complica un avvicinamento. "Una cosa strana e anche triste di cui mi sono accorto è che so tante cose stupide e inutili, o anche importanti e illustri, sui più svariati argomenti, mentre non conosco quasi niente della persona che mi ha generato, la persona, probabilmente, a cui nel mondo sono più simile e a cui devo di più". Il padre come estraneo, come straniero: Albinati accumula domande, domande anche semplici, semplicissime ("Cosa faceva l'estate a Roma da solo?"), ma che diventano enormi e terribili perché destinate a restare inevase. Il libro procede aprendo ricordi come varchi ("Una volta con mio padre presi parte
"), come prove di qualcosa. Albinati si approssima alla verità, a una verità tentando definizioni: "Mio padre era un uomo allegro", oppure nell'incipit "Mio padre non amava la musica", che mi ha ricordato l'incipit che dà il titolo a un romanzo del '94 di Enzo Siciliano, Mia madre amava il mare. Forse è un libro che ha contato per Albinati: l'esposizione nudi, indifesi alla complessità di una vita (quella dei genitori) che ci riguarda come poche altre e che tuttavia, precedendoci, ci sfugge, non è afferrabile. Ci mette appunto nella condizione di archeologi che lavorino però su fonti, su reperti a un tempo misteriosi e familiari. In ogni caso, caldi. Ondivago, desultorio, e affascinante proprio per questo, Vita e morte di un ingegnere diventa anche una serrata riflessione sull'essere figli, sull'immaturità, sul significato dell'obbedienza, su come essa possa convivere o meno con la complicità. È un libro trasparente, con una prosa limpida, un italiano bello e pulito, che sembra di un altro tempo. Commuove perché, tenendo sempre a freno le derive sentimentali e sorvegliata com'è ogni pagina, riesce a far sentire al lettore uno strazio profondissimo, un grido muto, il dolore di una resa dei conti che è impossibile chiudere e archiviare. Le pagine sulla malattia toccano non solo per ciò che di "esterno" raccontano, il decorso, le cure, la speranza e la disperazione che da esse deriva; ma è quella stessa malattia che consente di avvicinarsi, quello "stato di necessità" che apre gli occhi e ridiscute le distanze, quella malattia che, diciamo così, può far riavvicinare un padre e un figlio è anche ciò che chiude e li separa definitivamente. "Quelle erano le ultime occasioni che avevo per parlargli, erano gli ultimi istanti che potevo trascorrere accanto a lui, e bisognava prendere o lasciare quello che offriva il tempo rimasto, le poche briciole di una vita che stava per concludersi". Sono pagine pietose e spietate insieme, animate dal coraggio di ripercorrere una storia che è di tutti, universale però solo quando diventa dolorosamente privata, personale, intima. "La morte è oscena e semplice, un sibilo". Paolo Di Paolo
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