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Il protagonista e narratore è un diciassettenne, Ivan, che riesce a narrare di sofferenze e solitudine, di giorni sempre uguali, con un'ironia caustica e intelligente capace quasi di far dimenticare tutto il dolore che si respira nelle corsie di un ospedale che ospita bambini gravemente ammalati (a causa delle radiazioni liberate dall’esplosione di uno dei reattori nucleari della centrale di Černobil’). Egli vive in questo triste istituto a Mazyr da sempre e, proprio perchè lo conosce benissimo, ha deciso di scrivere un diario e di raccontarci com'è la vita in ospedale, chi sono i pazienti, come si comportano le infermiere e soprattutto leggiamo di come i libri abbiano avuto un ruolo importante nel salvare il ragazzo da una quotidianità drammaticamente desolante; ma non solo leggere, a rivoluzionare la sua esistenza di disabile grave ci pensa anche l'amore per la bellissima Polina, ricoverata in ospedale a causa della leucemia. Polina è differente dagli altri malati: se il suo corpo deperisce e si consuma giorno per giorno, la sua mente e il suo spirito sono vive più che mai e con il suo caratterino e la sua intelligenza, tengono testa alla lingua tagliente e spesso cinica del giovanotto, che si innamora perdutamente. E' un libro che commuove, fa sorridere, stimola l'empatia del lettore, che inevitabilmente si vede trasportato, con l'immaginazione, in questo istituto in cui c'è tanto dolore, morte..., ma dove possono nascere anche l'amore, l'amicizia, la complicità, la compassione. Bello.
Può, un autore affrontare temi quali la malattia, la menomazione e la sofferenza con equilibrio, misura e, persino, con umorismo? Ci è riuscito l’autore americano Scott Stambach nel suo impressionante debutto “La vita invisibile di Ivan Isaenko”, un diciassettenne che, dopo essere stato abbandonato dalla madre fin dalla nascita, ha vissuto in una struttura (l’Ospedale per bambini gravemente ammalati di Mazyr) dove vengono accolti quei bambini che, a causa delle radiazioni liberate nell’atmosfera in seguito disastro di Chernobyl, sono nati con gravi problemi fisici e psichici. A differenza di molti altri pazienti, Ivan, pur essendo spaventosamente incompleto – “Ho soltanto un braccio (il sinistro) e alla mano che c’è attaccata in fondo manca qualche dito (ne ho soltanto due, più il pollice). Le altre appendici sono dei monconi corti e asimmetrici che riesco a dimenare con una fatica enorme” – è cosciente, testardo, curioso, metodico e acuto osservatore della vita – o della non-vita – che si svolge nell'ospedale: gli arrivi e le partenze dei malati, le loro patologie, l’indifferenza o la malvagità di quasi tutto il personale. E’ anche molto intelligente, appassionato lettore e narratore in prima persona della sua storia. Quando nell’Ospedale per bambini gravemente ammalati di Mazyr arriva Polina, cui è stata diagnosticata una forma di leucemia, la rassicurante routine di Ivan viene sconvolta: la coraggiosa storia d’amore che nasce riesce a dare uno scopo, una ragione per sperare, un futuro a chi, fino a quel momento, si era limitato a sopravvivere. Quella di Ivan Isaenko è una storia che non lascia indifferenti, una storia forte, ma che andava raccontata, perché “...esistono angoli di mondo le cui voci non possono essere udite; voci così torturate eppure così vive, così peculiari eppure così familiari da supplicare chi è in grado di farlo di aprir loro una strada nei cuori e nelle menti”.
Recensioni
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La recensione è una delle tantissime modalità attraverso cui possa prendere forma il non meglio determinato concetto di “sintesi”, la cui parola ci richiama subito all’esercizio del mettere insieme diversi elementi. Sì, possiamo concludere che una recensione, al netto di ogni soggettività, sia in ultima istanza nient’altro che una sintesi. Nella sua accezione più universalmente condivisa, questa sintesi, questo “mettere insieme” è un esercizio che dovrebbe rispettare i termini della brevità. E non può esserci una brevità che non sorga necessariamente come contraltare di una qualche lunghezza, di una qualche ampiezza.
E qui sorge il problema.
Una recensione nasce come la necessità di dover descrivere “brevemente” una lunghezza con la quale ci si è appena confrontati. Nella fattispecie, capirete che questa lunghezza potrebbe senz’altro essere quella di un romanzo. Non mi riferisco ad una lunghezza formale (100, 200 o 300 pagine…) ma a un esercizio “lungo” quale è appunto quello della lettura. Un romanzo non lo so si termina in mezzora. Mai. Non è possibile.
Però può succedere che esso ti scorra tra le mani ad una velocità che non avresti immaginato, quasi che viva di vita propria, quasi che esso stesso “voglia” condurti a qualcosa nel minor tempo possibile. Qualunque appassionato lettore ha sperimentato ciò di cui parlo. Sapete a cosa mi riferisco. In più semplici termini da panchina il tutto corrisponde a quella bellissima espressione che fa quasi sempre piacere (ad un lettore come ad un autore): «L’ho letto tutto d’un fiato!»
Quando questo accade, e talvolta accade davvero, le definizioni e le consuetudini vengono inghiottite dalla relatività generale, e ciò che è breve e ciò che è lungo finiscono con il confondersi. La recensione smette d’essere sintesi, perché non hai avvertito quella lunghezza con cui doverti confrontare. Come si può sintetizzare un istante? Un istante è già sintesi, è già ricapitolazione.
Quanto si può ricapitolare nell’indefinitezza di un istante!
Ora, un romanzo come quello di Scott Stambach, e cioè La vita invisibile di Ivan Isaenko (302 pagine, 17,50 euro), pubblicato dalle edizioni Marsilio, non ti lascia però un senso di indefinito. Ti lascia un senso di infinito. E infinito non è solo ciò che non ha inizio né fine; è anche ciò che non può finire. È anche ciò che non vuoi che finisca.
Lo capisci già dalle primissime righe che questa storia sapientemente raccontata è una fottutissima trappola. Dì quelle in cui si fa di tutto per rimanere incastrati. Pagine come sabbie mobili, che ti trascinano sempre più verso il fondo. O verso l’alto?
Sicuramente ti trascinano verso l’Altro, che può essere chiunque: uno dei personaggi del libro, o magari una persona che conosci. O forse Dio. O perché no? Anche te stesso.
Sono storie fatte di relazioni, anche nella forma di certi soliloqui che sfogli e sfogli, che durano talvolta quasi come un intero capitolo, ma dai quali non ti staccheresti mai. Perché chi parla a se stesso, in modo autentico e vero, in fondo sta rivolgendo una parola a tutta l’umanità.
Il protagonista di questa storia, Ivan, è un esperto di soliloquia, di confessioni autogestite, se così si può dire. È un progrediente professionista di ciò che con termini più tecnici viene chiamata “autocomprensione”, o coscienza di se stessi. Si può diventarne esperti attraverso anni ed anni di allenamenti e di meditazioni, oppure per necessità.
Il buon vecchio Platone insegna che Penia e Poros sono amanti, e dalla loro unione nasce Eros. Questo libro insegna la medesima dottrina, senza che della dottrina abbia il pur minimo sembiante: la povertà e la necessità generano Amore, quello con la A maiuscola. Quello capace di far nuove tutte le cose, compresa la vita in un ospedale “per bambini gravemente ammalati”, come quello di Mazyr, la città bielorussa in cui si svolgono i fatti narrati.
Qui, in questo luogo così simile ad un campo di concentramento, si raccolgono i pezzi di alcune di quelle sfortunate vite che ebbero l’infausto destino di apparire dopo il disastro di Chernobyl. Disgrazie nelle quali, però, di quando in quando, è possibile incontrare la grazia.
Nella paziente e radioattiva attesa di un nocciolo non ancora esaurito, cominciano e si consumano interi destini umani fatti di sofferenze e di speranze. Alcuni di questi li troviamo intrecciati all’interno di questa storia, in una soluzione stilistica che va dal descrittivo scientifico all’ironico cinico, percorrendo moltissime sfumature narrative. Mi correggo: emotive.
In effetti, chi di noi può dire di appartenere ad uno stile piuttosto che ad un altro? Possono esserci tensioni, inclinazioni forse. Ma a governare i nostri stilemi interiori sono le emozioni. Ed Ivan di emozioni ne prova tantissime. Va proprio alla ricerca di emozioni. E dove non le trova le inventa, senza che queste invenzioni intacchino la realtà del suo essere. Ivan sa inventare delle emozioni vere; cioè, sa inventarsi, giorno dopo giorno. E lo fa attraverso uno sguardo perennemente aperto su tutto ciò che lo circonda, come pure attraverso la lettura, sua unica compagna. Almeno fino ad un certo punto.
Sarà infatti un evento (o un avvento!) a dargli quelle emozioni definitive grazie alle quali, semplicemente, scoprirà di essere colui che è, come Dio; un atto puro, un pensiero di pensiero senza restrizioni dovute al suo handicap, o pietistiche concessioni regalate da sguardi falsamente compassionevoli.
Ciò che gli accadrà, e che farà di lui un eccezionale narratore, sarà la misura del suo stesso amore. Ma non avverrà in una pagina! Avverrà un po’ per volta, lentamente, e con una velocità straordinaria che è quella della nostra scoperta.
Un grato riconoscimento va all’Autore, californiano, professore di matematica e fisica, che è stato capace di una tale sensibilità narrativa da trascinarci con sé all’interno del suo sogno letterario. E nel farlo ha saputo usare tutti gli strumenti vincenti, da certe scene di passione a certi colpi di scena che, in entrambi i casi, non ti aspetti affatto.
Il ritmo è insistente, martellante, come solo la curiosità e l’amore sanno essere. L’attenzione qui diventa obbligo morale. Non può e non deve esistere noia nella lettura di questo romanzo. Chi ne provasse un briciolo sarebbe in qualche modo colpevole, e non verso l’Autore. La noia, oltre certi orizzonti di esperienza e di condivisione, non può più appartenere all’umano; e diventa sintomo di un’alienazione più grave di quella che qualunque malattia potrebbe causare. Peraltro, chi si giudicasse troppo severamente come insensibile o irrimediabilmente annoiato dalla vita, leggendo questa storia scoprirebbe di essere ancora umano, e in modo sovrabbondante.
Il retrotesto offre enormi spunti di riflessione, anche sul lavoro di uno scrittore. Il materiale raccolto, le nozioni apprese, e tutti i riconoscenti riscontri dei ringraziamenti finali, fanno capire quanta fatica ci sia stata dietro. Fanno comprendere che raccontare una storia in modo serio non è solo dar libero fiato ad una suggestione, ma presuppone molto altro.
Aggiungo con gustosa sorpresa che, forse per caso, forse con deliberato consenso, Stambach ci regala una quasi invisibile analogia tra alcuni elementi del suo romanzo e quelli di uno scritto del grande Dostoevskij (La Mite, numero 721 della Piccola Biblioteca Adelphi, di cui parlerò in altra circostanza). Molte sono le “coincidenze letterarie” tra i due racconti, che cominciano entrambi con lo sbatterti in faccia l’epilogo della storia; che ti descrivono in modo identico (età, colore degli occhi e dei capelli) il personaggio femminile, e in modo quasi identico la sua malattia; che si inerpicano lungo quei soliloquia di cui parlavamo sopra, con tutti quegli identici sbalzi di umore e di passione, con tutte quelle contraddizioni così simili (come le autocondanne e subito dopo le autogiustificazioni), che finiscono per farteli somigliare quasi per forza, almeno in certi precisi punti. Davanti a siffatte similarità si crede davvero poco alle coincidenze, tanto più che a Stambach, che conferisce al suo protagonista un immenso amore per la letteratura russa, non penso sia sembrata così astrusa l’idea di omaggiarne in tal modo il più autorevole rappresentante. I protagonisti dei relativi racconti, presentando ancora un esempio, si rivolgono l’uno ai “cari signori” e l’altro al “caro lettore”; ed era questa una tipica consuetudine di Gogol, che Dostoevskij fu accusato di aver spudoratamente copiato: ne consegue che Ivan Isaenko (avendo letto tanto l’uno quanto l’altro) dev’essersi talmente rimpinzato di questi marcatori da farli suoi quando, da lettore che era, si trovò a doversi improvvisare scrittore, redattore di se stesso, o suo stesso imputato. Può essere un caso? Forse. In ogni caso, si tratta sono solo legittime supposizioni in bilico sull’orlo di una prova contraria.
Rimangono infine alcuni deliziosi e simpatici inciampi, che ci spieghiamo solo attraverso l’enorme distanza che separa gli Stati Uniti dalla Bielorussia, o quella ancora maggiore che separa le competenze di un professore di matematica e fisica da quelle di un ematologo. Come quando un’infermiera esclama: «Oh, San Tommaso d’Aquino!» e ci si chiede cosa c’entri il patriarca della Scolastica medievale con la spiritualità ortodossa, al punto di farne oggetto di una simile invocazione in luogo di un più probabile: «Oh, San Giovanni Crisostomo!». O ancora, l’aver scambiato un midollo spinale con un midollo osseo.
Ma questi sono dettagli che, mentre si legge un libro come questo, possono rimanere facilmente impigliati tra le palpebre di chi poi deve scrivere qualcosa, e magari è stato più attento solo per questo.
Per tutti coloro che invece leggono e basta, senza l’incarico di dover poi scrivere una recensione (ma che una sintesi dovranno farla lo stesso!), e che quindi non rischiano di arenarsi in insignificanti particolari, consiglio di percorrere questo lungo e brevissimo romanzo che si legge… tutto d’un fiato. Quasi tutto in un sospiro.
Esiste un nocciolo più potente di quello di Chernobyl, capace di emettere radiazioni decisamente più penetranti, capace di far ammalare dell’unica malattia che non uccide o, se lo fa, ti uccide per salvarti. Questo nocciolo è il cuore dell’uomo. Il più meraviglioso tra tutti i disastri.
Recensione di Nuccio Puglisi
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