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La vita in tram è il secondo libro di poesie di Edoardo Zuccato (Cassano Magnago, 1963), che insegna letteratura inglese all'università Iulm di Milano ed è fra i pochi autori "under quaranta" a scrivere in un dialetto - sintesi dei dialetti di Cassano Magnago e Fagnano Olona, per la precisione - che, con accezione ampia, si può inserire in quella tradizione letteraria milanese che va da Carlo Porta a Delio Tessa fino a Franco Loi. Accezione ampia perché, sul piano linguistico, come annota proprio Loi nella prefazione, quel dialetto "Zuccato lo chiama altomilanese". A prima vista potrebbe sembrare una questione di lana caprina, una pedante sottigliezza critica, mentre si tratta in realtà della materia prima, ovvero della sostanza, non dell'accidente, della poesia di Zuccato. Continua Loi: "la sua è una precisa definizione glottologica e geografica - ma per la sua ricchezza ed estraneità ai raffinamenti della cultura milanese, così vicina ormai alla sintassi e al vocabolario dell'italico parlare, preferisco rimarcare la sua grezza vocalità regionale, l'efficacia di questa sua lingua dei campi e delle pietre". Parole che rievocano un distico di Tropicù da Vissévar (Tropico di Castelseprio, Crocetti, 1996), l'opera prima di Zuccato: "Sent 'ma la sa da tera / a lengua a grana gróssa" ("Senti come sa di terra / la lingua a grana grossa") e che marcano, insieme agli elementi di affinità, la distanza da quella tradizione tutto sommato urbana.
Eppure non c'è nulla di più lontano di questa poesia da certi bozzetti naïf, da certa pseudo-poesia vernacolare impastata di melodramma o "nostalgismo" bucolico, nulla insomma di tutto ciò che, impropriamente ma ancora troppo diffusamente, viene associato alla letteratura dialettale. In questo libro modernità e ironia non mancano, e lo si vede già dall'epigrafe firmata Margaret Thacher ("Se a trent'anni prendete ancora il tram, / siete dei falliti") per proseguire poi con certe figure o espressioni tipicamente dialettali e intraducibili come le "madunétt dul petroli" (donne pesantemente e volgarmente ingioiellate), come i "püssê bon" (i "furbastri"), come l'"urtulan" (colui che fa lo gnorri o l'allocco). Disincanto e ironico distacco che non impediscono, specie in alcuni sprazzi dell'ultima delle quattro sezioni, di azzardare il più rischioso, perché facile ai cedimenti retorici, dei temi lirici: l'amore ("Perché né tu né io sappiamo / cosa vuol dire il nostro amore, / (...) / perché lì ci sta più di quanto / siamo in grado di metterci o trovare, / una sensazione di cose giuste / come quando con il sole di mattina / arrivano le tue e le mie labbra / a portare luce, / e poi di sera a portare ancora luce / quando è ora di coricarsi, / giuste come sono giuste le cose antiche / che spingono sempre in là la morte").
Corredato, oltre che di una traduzione in italiano dello stesso autore, di un esauriente apparato di note, questo secondo libro di Edoardo Zuccato rivela l'avvenuto approdo della sua voce poetica a un timbro originale e compiuto.
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