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Il ritrovamento del monastero egiziano di Apa Apollo a Bâwît costituì, all’inizio del Novecento, una delle più clamorose scoperte nell’ambito dell’archeologia cristiana e bizantina. Dalle sabbie del deserto riemerse un monumento di prim’ordine di epoca tardoantica e si dischiuse un capitolo inedito nella storia della civiltà copta. Dopo la fase eroica delle prime campagne di scavo, però, il sito fu abbandonato e gli edifici vennero ricoperti per una seconda volta.
Del vasto complesso restano materialmente visibili solo pochi preziosi pezzi, entrati a far parte dei grandi musei d’Egitto, d’Europa e d’America. Tra questi non sono molti gli affreschi che si sono salvati dall’oblio. Eppure essi davano un’impronta indelebile al monumento, ricoprendo – come le pagine di una grande Bibbia dipinta – le pareti e le volte degli edifici e soprattutto le celle-oratorio, dove i monaci vivevano e trascorrevano il loro tempo al lavoro o in preghiera. La nicchia dell’altare era riservata all’immagine più importante: la teofania, maestosa visione di Cristo tra i cherubini. Come i profeti e gli apostoli, anche i monaci del convento potevano prendere parte alla visione, e spesso li troviamo rappresentati ai margini delle composizioni, assorti o con un dito sulle labbra in attitudine di rispettoso silenzio dinanzi al miracoloso rinnovarsi dell’apparizione divina.
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