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La nozione di “capolavoro” ha una matrice inconfondibilmente idealistica. Idealistico è il modo di concepire l’opera d’arte come un prodotto eccezionale, isolato, frutto dell’intuizione sublime di un genio; e idealistica, in fondo, è pure la presunzione dell’esistenza di un rapporto di “continuità” tra il cosiddetto capolavoro e la propria epoca, di cui il primo rappresenterebbe semplicemente il “culmine”. In realtà, volendo servirsi ancora di questa categoria per altri versi parecchio invecchiata, bisogna riconoscere nel capolavoro da un lato la piena implicazione nelle vicissitudini produttive del proprio autore, e dall’altro una capacità – questa sì davvero straordinaria – di rompere con il proprio tempo, di mettere in crisi l’ordine precedente, e di istituirne al suo posto uno nuovo. Da questo punto di vista il capolavoro ha a che fare con l’epoca nel preciso senso che fa epoca, ovvero che provoca un arresto del corso del tempo (epoché, sospensione). Ma nel “far epoca” il capolavoro mostra la propria attitudine rivoluzionaria, non certo quella a occupare con sovrana tranquillità una posizione centrale che lascia però il quadro in cui si inserisce del tutto immutato.
Il libro di Susanna Caccia e Carlo Olmo (rispettivamente insegnante di restauro all’Università di Firenze e storico dell’architettura al Politecnico di Torino) non corre il rischio di incorrere in equivoci idealistici. Semmai – al contrario – è la perfetta incarnazione dello studio che compie una critica della nozione di capolavoro nel senso indicato all’inizio. E non certo perché non elegga a oggetto dei propri interessi un’opera d’arte sufficientemente “illustre” e celebrata; anzi, quello scelto dagli autori per la propria ricerca è uno dei “luoghi” più comuni dell’intera storia dell’architettura contemporanea, una delle sue “icone” più note e diffuse: la villa Savoye a Poissy di Le Corbusier. Ma è proprio questo il punto. Come scrivono gli autori: “la villa Savoye ha avuto biografie e monografie importanti, che si sono concentrate essenzialmente sulla sua genesi. Quello che qui si delinea è invece il gioco, assai complesso, che attorno alla villa si definisce [...], tra icona, rovina, oblio, restauro, trascrizione e memoria”. La natura fortemente iconica della villa Savoye non ostacola – e anzi favorisce – l’approfonditissima analisi allestita intorno ad essa dai due autori. È proprio tale natura, infatti, a occupare un ruolo centrale nella discussione intorno a villa Savoye – e non certo per negarla, e neppure per affermarla acriticamente, bensì piuttosto per ricostruirne dettagliatamente origini e sviluppo.
A partire dalla volontà esplicita – da parte di Le Corbusier – di assegnare fin da subito alla villa Savoye un ruolo canonico, facendone appunto un’icona. È il suo stesso autore, nell’Introduction al primo volume dell’Œuvre complète, pubblicato nel 1929, a fissare infatti i “caratteri” iconicamente più distinguibili della casa, non ancora finita di costruire e, anzi, ancora in via di progettazione: l’assenza di fronti, i quattro orizzonti (non identici ma astutamente concepiti in modo da farli risultare tali, in analogia con la Rotonda palladiana), la composizione cubica. Caratteri che, insieme ai pilotis sui quali la casa si regge, alle finestre en longueur che ne tagliano le facciate e ai volumi “puristi” del solarium che la coronano, concorrono tutti a comporre il quadro di una riconoscibilità oscillante tra l’eccezione e la norma.
L’aspetto più curioso e interessante è che contestuale alla creazione del “mito” sotto forma di icona, di “immagine”, è la dissoluzione fisica dell’oggetto architettonico concreto. “I difetti della villa iniziano a manifestarsi quasi contemporaneamente al cantiere”. Nel 1932 (l’anno successivo al termine dei lavori) diverse porzioni d’intonaco sono già da rifare. E inoltre, come risulta dall’epistolario tra la famiglia Savoye e lo studio di Le Corbusier, “piove nell’atrio, piove nella rampa e il muro del garage è completamente bagnato. Inoltre piove ancora nella mia stanza da bagno, che resta inondata a ogni acquazzone”. Ma tali ammaloramenti, ancorché risultare allarmanti agli occhi del suo autore, sono da questi considerati eventi di scarsa importanza, la cui gestione verrà lasciata infatti al cugino Pierre Jeanneret. E ancora di più: tali ammaloramenti in fondo non mettono in crisi la convinzione di Le Corbusier in merito al “valore” della villa Savoye. E non vi è contraddizione apparente per lui tra la progressiva scomparsa della villa reale e l’affermazione di quella ideale: anzi, addirittura l’una sembrerebbe quasi il presupposto dell’altra.
Con una precisione filologica ammirevole e facendo ricorso a una notevolissima mole di fonti di diversi generi (dal più classico archivio della Fondation Le Corbusier agli obituaries pubblicati da giornali e riviste all’indomani della morte dell’architetto), il libro di Caccia e Olmo ricostruisce l’intera vicenda della riduzione della villa Savoye in rovina, e poi del suo restauro, e poi ancora del ripresentarsi degli stessi problemi e della loro ennesima risoluzione. Si tratta di vicende complesse e altalenanti, che restituiscono tutte le difficoltà, le incertezze e le insidie legate a questo cantiere “postumo” rispetto alla costruzione originaria, ovvero alla costruzione (o ricostruzione) di qualcosa che non è soltanto un oggetto materiale, dotato di un suo valore d’uso, e neppure di un semplice valore di scambio, ma è anche – e soprattutto, verrebbe da dire – un oggetto virtuale provvisto del valore d’icona.
Ma, al là di tutte le questioni connesse ai diversi interventi di restauro attraverso i quali è passata nel tempo la villa Savoye, la tesi di fondo che emerge con forza dal libro di Caccia e Olmo va oltre la stessa persistenza materiale dell’architettura (benché in maniera significativa la incroci) e si concentra piuttosto sulla costruzione di un’idea. È sintomatico da questo punto di vista che, per quanto lo scandalo sul rapido deterioramento della villa – come notano gli autori – potrebbe facilmente ritorcersi contro di lui, sarà lo stesso Le Corbusier a enfatizzarlo, utilizzandolo per rilanciare la necessità di una conservazione degli edifici moderni, e in particolar modo di quelli che lui stesso non esiterebbe a definire i “capolavori” del XX secolo. Per fare questo l’architetto utilizza ogni mezzo a sua disposizione, intrattenendo – tra le altre cose – una corrispondenza con il ministro della Cultura André Malraux, e arrivando a ipotizzare l’allestimento all’interno della villa Savoye restaurata di un “museo Le Corbusier”.
Tra i documenti che gli autori hanno riunito per allestire la composita lettura della vicenda di cui si occupano, di particolare interesse è il dossier di Jean-Yves Le Guyader, vicino di casa dei coniugi Savoye, inviato al ministro Malraux nel 1965. Le fotografie – accompagnate da commenti di Le Guyader – mostrano lo stato di desolante abbandono in cui versa la villa. Ma la cosa più impressionante sono le scritte lasciate da anonimi visitatori della casa ormai ridotta a una rovina, all’interno della quale è facile entrare: “Francia vergogna! Non si abbandona così una grande opera di poesia!”; e ancora: “Sono venuto da Cambridge, Inghilterra, soprattutto per studiare le opere di Le Corbusier. Ed è per questa ragione che sono arrabbiato nel vedere questo capolavoro in tali condizioni. Vergogna alle autorità delle Belle Arti che lo hanno lasciato accadere! Vergogna! Vergogna!”.
Quando finalmente la villa ritornerà allo “stato originario”, come ossessivamente richiesto da Le Corbusier, non si sarà soltanto reso nuovamente attingibile un edificio di grande rilevanza dell’architettura moderna: si sarà anche affermata un’idea di modernità paradigmatica che la villa Savoye avrà preso a incarnare.
Marco Biraghi
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