Forse mai nessun ventennale è stato così vicino. Così capace di strattonare la memoria o di inumidire gli occhi, come quello dei Dioscuri della nostra giustizia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Probabilmente perché quel che accadde ebbe la forza violenta della guerra. O perché poche volte la morte ci è apparsa tanto ingiusta e maramalda. Certo perché gli strascichi di quelle due stragi sono ancora tra noi, non ci risparmiano, sembrano una mina infilata sotto il cuore delle istituzioni. E ne temiamo prima o poi lo scoppio. Per questo i libri. Occasione, il ventennale, per cimentarsi con la scrittura, per lasciare il segno del proprio passaggio in libreria, poiché non tutto ciò che è uscito si è dimostrato all'altezza dei protagonisti e delle emozioni. Brilla invece, per fortuna, il libro di Enrico Deaglio, Il vile agguato. Sottotitolo: Chi ha ucciso Paolo Borsellino. Una storia di orrore e menzogna. Il titolo non vuole comunicarci ripugnanza verso il delitto, benché ne sia percorso tutto il libro. Ha in sé qualcosa di più amaro e severo, la denuncia icastica della retorica delle istituzioni. Le stesse incapaci di cercare con tempestività la verità sulle stragi, le stesse intente a riaprire ogni volta la partita tra stato e mafia, anche quando sembra che lo stato possa vincere. Maestre nel distillare con perizia e compunzione le parole del cordoglio e dell'elogio funebre: "Nonostante le continue e gravi minacce, proseguiva con zelo ed eroica determinazione il suo duro lavoro di investigatore, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio dei più alti ideali di giustizia e delle istituzioni". Così, ci ricorda Deaglio, recitavano le motivazioni del conferimento della medaglia d'oro al valor civile a Paolo Borsellino. Il vile agguato, appunto. Che ha continuato a caricarsi di viltà. Altre viltà, a strati. Di chi depista, di chi fa indagini, di chi copre e cerca di spegnere ogni sprazzo di verità. Di chi lavora in direzioni opposte a quelle dell'eroe mentre lo celebra alle commemorazioni ufficiali. Deaglio si è già occupato di vicende di mafia. In un bel libro di tanti anni fa, Raccolto rosso. La mafia, l'Italia, diario discontinuo e incalzante del decennio siciliano tra il 1982 e il 1993, recentemente ripubblicato e aggiornato al 2010. E poi in Patria, diario altrettanto discontinuo e compatto della storia italiana dal 1978 al 2008, che sulla mafia contiene pagine di straordinaria efficacia, a partire da quelle sul viaggio in Sicilia di Giulio Andreotti, andato a incontrare gli uomini di Cosa nostra dopo l'assassinio del presidente della Regione Piersanti Mattarella. L'autore nutre per questa parte della storia nazionale una passione genuina, che gli alza la temperatura della prosa, lo fa oscillare spesso tra l'invettiva e la dolcezza lirica. Ma stavolta non è solo la materia che lo coinvolge. Stavolta c'è di mezzo un protagonista speciale e irripetibile, l'eroe buono Paolo Borsellino che anche in foto porta lo sguardo "miele e mestizia" che gli riconobbe una poetessa. Deaglio passa dunque in rassegna le mille tesi e suggestioni che si sono succedute e intrecciate sulla vere ragioni e sui veri mandanti della strage di via D'Amelio. Si muove tra i bassorilievi d'epoca. Servizi segreti, politica complice, imprenditori del Nord, carabinieri, questori. E naturalmente mafiosi viceré, mafiosi manovali, pezzi di Cupola in proprio, pezzi di Cupola per conto altrui, il paese che implode con Mani pulite e la condanna dei boss in Cassazione, i vecchi equilibri che saltano, e un eroe che ci finisce in mezzo, stritolato da eventi e spinte che non risparmiano nessuno e che hanno una fretta dannata di compiersi. Difficile orientarsi. Sono questioni su cui in tanti si sono spaccati il cervello senza riuscire onestamente a formarsi una convinzione definitiva. Così che anche l'autore arriva alla conclusione che l'omicidio Borsellino sia ormai diventato, vent'anni dopo, uno dei tipici buchi neri della storia italiana in cui si danno appuntamento misteri e verità inconfessabili. Come il caso Moro, dice. E tuttavia, prima di arrivare a questa conclusione, il lettore viene portato come da un Virgilio appassionato nei gironi dell'inferno che fu quel grumo di mesi di eversione e di follia. E gli interrogativi arrivano nitidi, incalzanti, lungo i tornanti del cammino. Perché nessun magistrato sentì il bisogno di sentire Paolo Borsellino nei cinquantacinque giorni dopo la strage di Capaci? Perché proprio lui, l'amico fraterno, il compagno di sempre, l'investigatore che tutto sapeva della mafia siciliana, non venne ascoltato per capire chi avesse voluto la morte di Giovanni Falcone? E ancora. Perché non veniva bonificata la zona davanti alla casa della madre del giudice, in via D'Amelio, soprattutto dopo quanto era accaduto il 23 maggio e addirittura dopo la notizia dell'arrivo del tritolo che avrebbe dovuto raddoppiare l'orrore? Perché, con l'eccezione di due soli magistrati, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, decine di figure istituzionali credettero, una dopo l'altra e tutte insieme, alla tesi della colpevolezza di Vincenzo Scarantino, mafioso da quattro soldi, noto in Cosa nostra per la sua fragilità mentale, e a cui quindi nessun capo avrebbe affidato una missione di quel livello e impatto, e che si autoaccusò del delitto e del delitto venne considerato l'autore per quasi vent'anni? E appunto: perché si autoaccusò, e con sé mandò in galera altri innocenti? Perché fu possibile questa mostruosità nella soddisfazione collettiva di poliziotti e magistrati che pure nella dura prova della "guerra di Sicilia" avevano sfoggiato professionalità invidiate in tutto il mondo? Deaglio ci si arrovella, passa al setaccio ogni ipotesi possibile. Specialmente quando entra nel suo raggio di pensiero la figura di Arnaldo La Barbera, poliziotto stimato da tanti giornalisti, capo della Mobile palermitana e poi per meriti questore a Palermo, Napoli e Roma, atteso alla prova quasi dieci anni dopo da un altro buco nero di eversione e di follia, quello del G8 genovese. Fu lui a ottenere la confessione da Scarantino. A furia di botte, si dice. Ma bastano le botte perché una persona decida di rischiare l'ergastolo? Finché nelle nebbie che annegano le istituzioni (sempre più impegnate a deplorare il "vile agguato"), si fa largo la verità di Gaspare Spatuzza, luogotenente dei Graviano, padroni del quartiere Brancaccio. Sì, la verità arriva dal killer spietato che scioglieva nell'acido le sue vittime mangiando pane e mortadella, oggi pentito. Sono stato io, ha spiegato, fornendo tutti i dettagli rivelatori. Facendo saltare molte ipotesi fantascientifiche che nel frattempo, come sempre, si erano affermate conquistando il credito degli antimafiosi di nuova generazione. Così il mafioso bistrattato per le sue dichiarazioni su Marcello Dell'Utri ha messo i primi punti fermi in questa incredibile vicenda della storia repubblicana. Compresa la presenza di un uomo dei servizi nella preparazione dell'attentato. Eppure sbaglierebbe chi pensasse che la forza del libro di Deaglio stia soprattutto nella capacità di smontare le verità ufficiali e di indicare lungo i gironi del suo inferno storico-letterario i sospettabili e gli inaffidabili, suggerendo accordi intelligenti di infedeltà e di sangue. O nel procedere acuto ed esperto del giornalista-investigatore. La sua forza sta soprattutto altrove: nella rabbia civile e immalinconita per quel che successe il 19 luglio 1992 a un uomo buono e per quanto gli è stato fatto dopo. È infatti l'affetto sotterraneo per quel magistrato giusto a guidare una dopo l'altra le sue parole, a creare scorci veri di letteratura, ad accostare il filo della poesia al filo del terrore. Ci sono due pagine che valgono tutto il libro. Sono quelle in cui l'autore intaglia un paragone tra Moro e Borsellino. Per tutti e due ci sono cinquantacinque giorni che precedono la morte, dopo via Fani per l'uno, dopo Capaci per l'altro. Per tutti e due ci sono i servizi di mezzo, anche se in forme diverse. Ma Moro conosceva lo stato vero dall'interno, da dentro le viscere del potere. Per questo pensava che si potesse trattare, che nessun grande principio sarebbe stato davvero calpestato per salvargli la vita. Che avesse ragione sarebbe stato dimostrato solo tre anni dopo con la trattativa per l'assessore regionale "al terremoto" della Campania, il democristiano Ciro Cirillo, suo collega di partito. Non fu così per lui, che capì con raccapriccio nella prigionia quel che non aveva ancora capito del suo partito. Borsellino, che pensava di conoscere lo stato, avendolo servito in trincea, lo scoprì invece mentre una trattativa che non avrebbe mai voluto era in corso. Moro ucciso senza la trattativa che chiedeva, Borsellino ucciso mentre la trattativa prendeva il volo. Mentre qualcuno già sapeva. In un vile agguato. Nando dalla Chiesa
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