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Anno edizione: 2008
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Einaudi ha ripubblicato un volume che Rossana Rossanda aveva dato alle stampe con Bompiani nel 1981, rievocando un viaggio compiuto in Spagna nel 1962. A Rossanda interessava allora documentare in che modo la Spagna stesse vivendo il suo "desencanto", adagiata in un'illusione che non si era mai travestita da azione, e tanto meno da rivoluzione. Soprattutto si trattava di testimoniare l'inizio di una crisi, quando, in quel 1962, all'autrice membro del Comitato Centrale del PCI, per la prima volta "i conti non tornarono". Quella missione diventò "la misura della propria incapacità ed errore", in un momento in cui "l'impossibilità di capire in forme vecchie e l'inafferrabilità d'una qualsiasi forma nuova" si manifestava non solo in Spagna, ma anche nel PCI. Il paese attraversato per sondare gli umori del franchismo e dell' antifranchismo, non corrispondeva alle logore categorie di una militante comunista formatasi sui dogmi della III Internazionale. Non si trattava già più, nel '62, di constatare la fine del fascismo, bensì di immaginare le infinite possibilità di resistenza del capitalismo. La Spagna di quel viaggio "non era una società politicamente azzittita, ma apparentemente una società non politica; non imbavagliata, ma vuota". Viaggio, quindi, della disillusione o della delusione crescente, narrato in un libro nutrito di pretesti narrativi che costituiscono il vero percorso di maturazione politica all'interno della coscienza. Primo ed essenziale spunto descrittivo sono i luoghi, che nemmeno fisicamente corrispondono a quelli immaginati. Anche i personaggi sono fatti della stessa pasta delle città, esasperanti nella loro pazienza, inaffidabili nel loro ricordare il passato. Ma soprattutto c'è lei, Rossanda, imprudente e mai rassegnata, così in disaccordo con tutto da costituire l'unica nota sopra le righe nel monotono spartito di quell'opposizione. E' lei, con la sua memoria risentita, che scopre una Spagna deludente e ce la restituisce calda e tesa.
Recensioni
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In effetti sembra un viaggio inutile. Era ancora troppo presto per vedere gli sviluppi che avrà la democrazia spagnola dopo trentasette anni di franchismo. Il viaggio di Rossanda del 1962 (raccontato in questo libro uscito per la prima volta nel 1981 da Bompiani) è ancora lontano dalla transizione e dalla democratizzazione del paese. Franco muore nel novembre 1975 e in quell'anno verranno eseguite ancora sentenze capitali con la garrota. Dovranno passare mesi dalla sua morte, quasi un anno, prima che la "democratizzazione" e il ripristino di libere istituzioni democratiche vengano compiute, con la legalizzazione dei partiti e del sindacato e libere elezioni. La transizione non poteva essere diversa da quella avvenuta nel dopoguerra in tutti i paesi europei, dove il nazi-fascismo era stato militarmente sconfitto: la inizia nel 1976 il franchista Adolfo Suarez che succede ad Arias Navarro. Nel trattare l'argomento della transizione spagnola alla democrazia non va dunque dimenticato che nel 1962 il clima generale del paese era ancora ulcerato dal ricordo dell'enorme numero di vittime della feroce guerra civile.
Il libro di Rossanda sembra ignorarlo. Al contrario è questa, a giudizio non solo di chi scrive, la più importante chiave interpretativa per capire i limiti e le difficoltà della transizione spagnola. Franco muore infatti nel suo letto da vincitore e non da perdente. Nel 1962 ogni volto dei vecchi protagonisti di quella matanza è volutamente rimosso dagli spagnoli. Suarez era un giovane, come del resto il re Juan Carlos e Felipe Gonzales. Costoro non hanno avuto, come tutti i giovani spagnoli, alcuna parte nella tragedia nazionale della seconda metà degli anni trenta e proprio loro compiranno la transizione. Rossanda non lo ricorda, ma è soprattutto il trauma della guerra civile che nel 1962 sembra ancora paralizzare l'opposizione democratica e comunista o che la spinge a mutare, a "nascere saggia, mediatrice". Il desencanto non è delusione per la nuova democrazia spagnola; è piuttosto simile al sentimento per il nuovo che non realizza i sogni. Ma lo stesso desencanto valeva anche per molti italiani nel dopoguerra, e oggi nella Russia di Putin.
Nei primi anni sessanta l'"entrismo" era una delle prime decisioni politiche del movimento operaio a guida del Pce e consisteva nel "far entrare la mano dell'opposizione nel guanto del sindacato Vertical, il sindacato corporativo fascista, e questa mano, coperta dall'ufficialità, avrebbe operato dal di dentro per guidare le lotte e la riconquista della democrazia". Che fosse temeraria, ma anche efficace, questa strategia dell'entrismo, lo dimostrerà lo stesso regime, montando una dura campagna repressiva e uno dei più mostruosi e giganteschi processi (il "Processo 1001") contro l'intero gruppo dirigente delle Commissioni operaie e di qualificati dirigenti comunisti. Il processo condannò a centinaia di anni di carcere l'intero gruppo dirigente clandestino delle Commissioni, con cui i sindacati italiani, la Flm principalmente, avevano stabilito dalla fine degli anni sessanta intensi rapporti e concrete iniziative di lotta comune.
Non va dimenticato che le prime caute aperture democratiche furono accompagnate da scontri e dalla repressione poliziesca: durante gli scioperi del 1971 alla Seat Fiat, la Guardia Civil sparò e sul terreno rimasero un operaio morto e molti feriti. Vero è che "la vecchia talpa si scavò una buca singolarmente profonda, in attesa dei tempi migliori", come scrive Rossanda, e che il ritorno alla democrazia avveniva in un paese dove la sinistra aveva subito una catastrofica sconfitta militare e politica, frutto anche delle profonde, disastrose divisioni interne alla repubblica. Franco era la sola vecchia faccia superstite di quei terribili tre anni di guerra civile; il governo repubblicano in esilio a Tolosa, in Francia, era ignorato, quasi dimenticato. Ma anche i membri del governo in esilio ricordavano la guerra fratricida, entre hermanos, costata un milione di morti, in un paese allora di poco più di trenta.
Credo non sia generoso definire "ambiguità" i comportamenti dei dirigenti dell'opposizione, quando si osservano i fatti da questo punto di vista. Si trattava piuttosto di una transizione obbligata, in un paese dove il franchismo aveva vinto. Franco era stato anche abile: non si era fatto coinvolgere nella disastrosa e perdente guerra dei suoi generosi complici nella distruzione della repubblica, Hitler e Mussolini. La "Divisione azzurra" spagnola in Russia, a fianco delle armate tedesco-italiane, non intaccava la neutralità dello scaltro e calcolatore dittatore spagnolo. Ancora oggi Zapatero ha difficoltà a portare alla luce i misfatti del regime e processare i criminali di guerra ancora vivi; accentuerebbe la divaricazione del paese, men che meno può rimuovere la salama di Franco nella Valle de Los Caidos, ancora meta di adorazione e di fanatici pellegrinaggi da parte dei non pochi franchisti di oggi. Alberto Tridente
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