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Uno Shakespeare ventenne, con la sola compagnia di un volume di Plutarco nella bisaccia, parte dall'Inghilterra alla ventura, per un viaggio che lo porterà, attraverso l'Olanda e la Germania dilaniate dalle guerre di religione, sino alla lontana Danimarca. A ogni tappa, qualche incontro significativo interverrà a destare nella sua mente i fantasmi delle sue creazioni future: la figlia di un oste olandese suicida per amore o un giovane contadino danese pieno d'odio per il patrigno, trasfigurati dall'immaginazione, daranno così origine a Giulietta e ad Amleto, sullo sfondo di un'epoca tormentata e violenta ma vitalissima, tra alchimisti, gesuiti, anabattisti, attori, pittori, mercanti, mercenari e cortigiane. Per apprezzare veramente questo romanzo fantasmagorico, è opportuno riconoscere nello Shakespeare che ne è il protagonista un alter ego dell'autore, il grande polemista reazionario Léon Daudet, figlio del romanziere Alphonse e grande amico di Marcel Proust, che gli dedicò I Guermantes. Daudet pubblica Il viaggio di Shakespeare nel febbraio del 1896 (non c'è traccia di questa data nell'edizione italiana: il copyright rimanda all'edizione del 1929, la quarta di copertina tace). Ha ventinove anni. Un anno prima, convinto della colpevolezza di Alfred Dreyfus, ha assistito alla degradazione del capitano ebreo, e l'ha descritta in una pagina giornalistica di terribile efficacia. È probabilmente al ricordo di quell'evento che rimanda la ripugnante figura dell'ebreo Rabbas, sordido padre incestuoso di una splendida figlia, che incontriamo, con un certo disagio, nel quarto capitolo. Un'introduzione che presentasse senza reticenze Léon Daudet al lettore italiano e contestualizzasse storicamente questo sontuoso romanzo visionario sarebbe stata la benvenuta. Mariolina Bertini
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