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E’ un libro affascinante, in cui l’autore mescola in modo originale ed intrigante il contenuto, lo stile e la forma. E’ una storia semplice, quasi fanciullesca, i cui protagonisti, l’elefante Salomone ed il subhro a lui addetto, sono di volta in volta affiancati da grandi personaggi (come il comandante lusitano o l’arciduca d’Austria) e piccole comparse la cui interazione viene canzonata bonariamente dall’autore per riflettere in modo a volte ironico ed a volte sarcastico sui piccoli vizi e le banali credenze di prototipi di uomini umili e nobili del XVI secolo, ma anche sulle sempiterne paure dell’uomo nei confronti della natura e degli altri uomini. La modalità scelta per scriverlo è a sua volta particolare; la regola è che non ci sono regole: niente maiuscole per nomi personali, di città o altro, se non a seguire i punti, dialoghi confusi nel testo con la sola accortezza della maiuscola iniziale (qui sì...) e di una virgola a separare botta e risposta, testo a capo solo a segnalare in modo teatrale la chiusura della scena ed infine nessun punto di domanda o esclamativo. Per non parlare degli incisi: in una frase ne ho contati almeno 6 e seguirli tutti non è stata impresa da tutti... Non un libro facile da leggere, ma sicuramente interessante, anche se credo che meglio sarebbe leggerlo in lingua originale vista l’importanza di stile e forma.
Va beh che passare dalla lettura di "Cecità" a quella di qualsiasi altro libro è opera ardua, vista la grandiosità del primo...ma questo ultimo lavoro di Saramago mi ha lasciato proprio pochino...coinvolgimento zero (magari non ci si aspetta per forza quello), solo qualche isolato lampo di genio.
Che il Maestro Saramago non sia un semplice cantastorie, è fatto notorio. Una scorsa di tutta la sua copiosa produzione lo attesta più pensatore raffinato, filosofo atipico, che narratore tout court. L’ultimo gioiellino (Il viaggio dell’elefante) conferma questa qualità altissima della pagina saramaghiana, di costruire sul tessuto di un fatto – che alla fine si dà come semplice ubi consistam, come materia grezza per edificare “altro” – tutto un impianto di pensiero dove il profilo sociologico si lega a quello semiologico, quello semiologico a quello storico, quello storico a quello più sottilmente letterario, in una complessità ingegneristica che pure non appesantisce mai la penna, ché in ultima analisi è poi il sorriso sornione e canagliesco dell’umorismo ad agglutinare dentro un messaggio divertito di divertito nichilismo. Così non si creda che il Maestro si sia limitato a rendere grazioso e godibile l’evento minore di un cadeau atipico che la Storia pure annovera nei suoi archivi. Il viaggio dell’elefante Salomone-Solimano - offerto in dono da dom João all’Arciduca Massimiliano d’Austria - si trasforma, sotto la potenza immaginifica dell’inchiostro saramaghiano, in un teatro dove sono scolpiti, sotto la luce tagliente del riflettore, gli ingranaggi tutti della macchina politica e sociale del Mondo Occidentale. L’incidente diplomatico tra cavalleria portoghese e cavalleria austriaca, alle porte di Figueiro de Castelo Rodrigo, o ancora il miracolo di Salomone-Solimano davanti la Basilica di Sant’Antonio, sono solo alcuni degli episodi esilaranti e parossistici attraverso cui, narrandoli, il Maestro indaga la vanità, la scellerata “cecità” dell’uomo. Pure il libro non perde di affettività. All’elefante ci si affeziona, convivendo il suo destino di cattività affidato alle intemperie dell’umano capriccio. E mai lo si vorrebbe abbandonare. Ma le pagine corrono leggere, veloci. Trasportando chi legge nella malia di un soffio.
Recensioni
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Questa, che come altre di Saramago sembra una favola nata da pura invenzione, è invece frutto di ricerca su una vicenda storica offerta allo scrittore dal caso. A Salisburgo, dove si trovava per una conferenza, Saramago si era imbattuto in una serie di incisioni che illustravano il viaggio di un elefante attraverso l'Europa, e un dettaglio in particolare aveva richiamato la sua attenzione, ovvero che il luogo di partenza del tragitto fosse la Torre di Belén, a Lisbona. Si trattava infatti di un elefante donato dal re del Portogallo João III al cugino, l'arciduca Massimiliano d'Austria, ragione per cui il pachiderma, scortato da soldati, ufficiali, cavalli e buoi, dovette intraprendere un lungo e accidentato viaggio dalla capitale portoghese a quella austriaca. Questo l'evento, accaduto verso la metà del XVI secolo, su cui la fantasia dello scrittore ha lavorato animandolo di personaggi e di aneddoti esemplari fino a tessere una delle sue proverbiali "lezioni" sulla condizione umana. In sostanza, l'autore segue i parametri di un romanzo storico concedendogli piccole ma significative irruzioni di fantastico.
Saramago immagina l'elefante indiano languire sporco nelle stalle reali sotto le cure svogliate di Subhro, il cornac che lo aveva accompagnato due anni prima dall'India, finché alla regina, Caterina d'Austria, non viene in mente di "riciclare" l'animale come dono e fare bella figura con l'arciduca che in quel momento si trova nella vicina Valladolid. Ripuliti l'animale e il suo guardiano, e accompagnati da un piccolo esercito in pompa magna, la curiosa comitiva si sposta per un'Europa attraversata dai venti dell'Inquisizione, dove farà significativi incontri e l'elefante sarà involontario protagonista di ben due miracoli. Il tutto impregnato dell'umanesimo ironico che caratterizza la narrativa dello scrittore portoghese: il buon Salomone ché questo è il nome dell'elefante prima che l'arciduca glielo cambi in Solimano è spettatore innocente di una commedia umana, rappresentata dai re cattolici che ne fanno oggetto di un momento di tedio, dei capitani che intendono usarlo come biglietto da visita di gloria militare, degli ecclesiastici che vogliono utilizzarlo nella crociata contro i venti della Riforma.
Questa, in breve, la storia. In se stessa, a dire il vero, poco appassionante se non fosse che, come ben sanno gli affezionati lettori di Saramago, una semplice cronaca di viaggio si fa subito apologo grazie all'implacabile sguardo dell'autore che, combinando personaggi reali e inventati, lancia l'ennesimo strale, ora sarcastico, ora pietoso, sulle debolezze umane, fatta salva la possibilità di trasformazione grazie alla quale, talvolta, questa stessa umanità canzonata si riscatta. L'autore si diverte infatti a indovinare come, da puro strumento, l'elefante finisca per indurre un intero mondo a organizzarsi intorno a lui e come tutti gli individui, dall'umile addestratore all'arciduca, vengano in qualche modo segnati da questa esperienza.
Tutti i leitmotiv della narrativa di Saramago si ritrovano puntuali anche in questo lungo racconto, genere cui l'autore stesso preferisce ascrivere Il viaggio dell'elefante. Sono presenti i suoi capricci sintattici (i dialoghi inseriti nella narrazione senza soluzione di continuità e l'assenza di maiuscole per i nomi propri); il testo disseminato di proverbi e di sentenze arcinoti (come quelli che potrebbe elargire un cantastorie), commentati con una tale dose di straniamento da renderli nuovi; l'amore spropositato per gli animali, che si intuiscono, nella concezione dell'autore, migliori degli esseri umani e dei loro ambigui maneggi, specialmente quando si entra nel dominio dell'autorità e della chiesa; l'esplicito intervento del narratore, che ricerca la complicità del lettore attraverso annotazioni metaletterarie, sfidando volutamente la suspention of disbelief.Si aggiunga, infine, la consuetudine di lasciarsi un po' prendere la mano da digressioni filosofiche o etiche, che, talvolta, peccano di un moralismo analogo a quello di cui intendono essere il contrappunto, e da una certa dose di argomenti ormai abusati dallo scrittore, come la spregiudicata critica ad alcuni passi del Vangelo.
Ma niente paura: il lettore affezionato di Saramago vedrà confermata la sua affezione, e il rischio di annoiarsi lo correrà soltanto chi abbia già esaurito in precedenza questa vena. Se si può avanzare qualche riserva su un mostro sacro, senza nulla togliere alla sua arte affabulatoria, nel complesso quest'ultima prova letteraria è sembrata a chi scrive meno avvincente di altre. Si offenderanno i suoi lettori? Potrebbero anche arguire che il recensore non ha colto la magia del romanzo. Sia pure.
Vittoria Martinetto
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