La parola "traduzione"? Potrebbe derivare da un errore di traduzione. A commetterlo, agli inizi del XV secolo, l'umanista fiorentino Leonardo Bruni, che avrebbe frainteso l'uso del verbo traducere (letteralmente "introdurre") in latino. Quello che era un verbum greco traductum nella lingua di Roma, ovvero "trasportato di peso", divenne "tradotto" in senso moderno e la fortuna di questa interpretazione non si è più fermata. È con questa curiosa (e per molti versi illuminante) vicenda che Maurizio Bettini inizia il suo Vertere, viaggio nell'antropologia della traduzione a Roma e in Grecia. Un percorso articolato e sorprendente che prosegue con il Poenulus, la commedia di Plauto celebre per uno stralunato tentativo di dialogo con un cartaginese che non ha niente da invidiare agli analoghi exploitdi Totò e Peppino, e giunge, in un clima decisamente più rarefatto, fino alla traduzione latina della Bibbia da parte di Gerolamo. Qui, peraltro, siamo al termine dell'antichità, in un clima culturale per tanti versi più vicino al nostro. Proprio le riflessioni iniziali sulla genesi della parola "traduzione", infatti, fungono da primo campanello d'allarme per il lettore: occorre prestare la massima attenzione a non proiettare sulla Grecia e su Roma i nostri concetti (o forse sarebbe meglio dire preconcetti), facendosi ingannare da quella che Bettini definisce "interpretazione retrospettiva". Occorre, insomma, disincrostare la cultura antica dalle millenarie incrostazioni che la banalizzano e ne offuscano un tratto forse sconcertante, ma con il quale bisogna necessariamente fare i conti: la sua alterità. "Siamo troppo abituati a credere che i nostri antenati la pensassero come noi su tutto quanto, anche nella traduzione": soprattutto nella traduzione, verrebbe da dire. Basta pensare al concetto di "fedeltà", a quello di "traduzione libera" e "letterale", che per noi sono naturali e che, quasi automaticamente, sono proiettati anche sui classici, come il celebre brano dell'Ars poetica di Orazio (v. 131 sgg.) dove si parla di un fidus interpres. È un "interprete fedele", uno che "traduce alla lettera"? Assolutamente no: basta scavare appena più a fondo per scoprire che dietro quest'espressione c'era un sistema di riferimento molto diverso. La parola interpres può certo significare "interprete", ma anche "giudice", "arbitro": Menenio Agrippa, che riconciliò la plebe di Roma con il patriziato raccontando della ribellione delle parti del corpo contro lo stomaco, in questo senso era un "interprete". Soprattutto, l'interpres era un "mediatore commerciale", da inter e pretium, "prezzo". In effetti è proprio la dimensione economica che, come Bettini dimostra, risulta alla base della concezione romana della traduzione, vista prima di tutto come uno scambio, una sorta di baratto. Il ruolo del traduttore, dunque, è quello di un mediatore che cerca di arrivare a un compromesso, in un'ottica di approssimazione molto distante dalle nostre aspettative, che invece proiettano sulla traduzione immagini e metafore relative a riproduzioni "esatte" più o meno meccaniche: un calco o uno stampo, per esempio. Proprio seguendo questa imagerie, tra l'altro, nell'ultima parte del libro Bettini si interrogherà sulle analogie fra la traduzione "perfetta" nella concezione cristiana e le tradizioni relative alle miracolose immagini acheropite ("non prodotte da mano d'uomo") della tradizione cristiana, nate senza l'intervento di "mediatori" (pittori, artisti). Una concezione tutto sommato estranea all'antichità classica, dove nella traduzione non importava che il risultato fosse identico all'originale, ma che ne mantenesse la stessa efficacia (vis). Una commedia, ad esempio, doveva divertire il pubblico. Cambiare i nomi dei personaggi, modificare le battute e le situazioni, inserire scene da altre pièce, tutto era lecito purché il risultato finale mantenesse la vis dell'originale. E in questo senso, sicuramente, agli occhi dei Romani sarebbe stato il nostro traduttore "fedele", che segue religiosamente la falsariga dell'originale, a sbagliare. A ben vedere, un atteggiamento di questo tipo presuppone un rapporto molto libero con il testo di partenza. Qualcosa del genere c'è anche nella nostra cultura, però nell'ambito dello spettacolo: si può pensare ai remakecinematografici, dove quello che conta è il risultato finale, non l'aderenza al modello. E se finora abbiamo parlato perlopiù di Roma, Bettini è attento anche alla figura dell'hermeneus greco, il cui nome è connesso a Hermes e che, al pari del suo corrispondente romano, non somiglia affatto a un interprete asettico "come quelli presenti alle riunioni dell'onu". Questi sono solo alcuni esempi dei percorsi di Vertere, ricchissimo di riflessioni e testimonianze che, liberando la cultura degli antichi da tanti preconcetti moderni, permettono di rimettere in moto la riflessione lungo una serie di piste affascinanti e sorprendenti. L'intreccio fra traduzione e modello economico, ad esempio, permette di addentrarsi alla scoperta del silent trade, il "commercio muto" cui accenna per primo Erodoto e che, nel corso dei millenni, ricorrerà in resoconti di viaggio greci, latini, arabi, cinesi, portoghesi, tutti colpiti dall'equità di questa pratica esotica. In paesi lontani, venditori e compratori, senza conoscersi e senza mai parlarsi (nullo commercio linguae, dice Plinio), si alternano nel luogo scelto per la transazione, in genere la riva del mare o di un fiume, lasciando sul terreno rispettivamente le merci e il loro controvalore in oro. Nessuno viene truffato e tutti, alla fine, se ne vanno soddisfatti. Questo è il nucleo di un racconto che avrà grandissima fortuna, forse più mitico che storico (man mano che si dilatano i confini del mondo conosciuto, le popolazioni che praticano il silent trade si fanno sempre più remote: se gli Arabi lo attribuiscono ai Russi, i Russi lo attribuiranno ai Lapponi), ma che si rivela portatore di concetti importanti. Primo tra tutti, che si può praticare un commercio veramente giusto senza nemmeno vedersi, facendo a meno dell'approssimativo compromesso al quale, invece, condurrebbero interpreti e traduttori. Un mito, dunque, piuttosto attuale: è proprio oggi che, grazie a internet, si pratica sempre più un vero e proprio "commercio tra invisibili". Anche qui l'interprete come persona svanisce, e il suo ruolo, al massimo, è affidato a una macchina asettica: i famigerati "traduttori automatici", accessibili da qualsiasi browser, che promettono di trasformare istantaneamente un testo da una lingua all'altra. Quello della trasformazione, non a caso, è un altro dei concetti chiave che i Romani collegavano alla traduzione. Lo dimostra l'uso frequente del verbo vertere, dal quale deriva anche l'italiano "versione" nel senso scolastico di traduzione di un brano di autori greci e latini. Ma vertere, prima ancora di "tradurre", vuol dire "mutare", "cambiare", anche in maniera radicale e repentina. Non a caso è strettamente connesso alle metamorfosi magiche: i lupi mannari in latino si dicono versipelles, "muta-pelle". Il connubio fra traduzione e licantropia sembra strano? Forse non troppo, visti i risultati decisamente mostruosi che si ottengono con i traduttori automatici. Al massimo possono somigliare ai maldestri tentativi di apprendisti stregoni ancora incapaci di padroneggiare un incantesimo più potente di loro. Perché la traduzione, prima di tutto, come ci insegnano (stavolta davvero!) gli antichi, e come Bettini mette bene in luce, è prima di tutto questo: magia. Tommaso Braccini
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