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Rischiosa e controcorrente per vocazione e intenti, l'operazione storiografica condotta da Saverio Lamacchia accompagna idealmente il lettore nella fucina scoppiettante di questo "libro magistrale", per dirla all'unisono con una voce autorevole come quella di Philip Gossett. Se c'è infatti qualcosa di più criticamente problematico della ricostruzione di una tradizione storica, questo è la revisione, che può portare anche allo stravolgimento sistematico, della stessa. Nel caso del Barbiere di Siviglia di Rossini, l'innegabile fama che da circa due secoli accompagna l'opera ha steso un velo di apparente quanto intoccabile familiarità con la stessa, rendendo l'opera «uno dei capolavori più travisati nella storia del melodramma». La ricezione dell'opera si sostanzia pertanto della contraddizione, insita da un lato dall'essere Il Barbiere rappresentato sui teatri di tutto il mondo, dall'altro dal non godere a tutt'oggi di un'approfondita analisi drammaturgica. Questa si rivela tanto più necessaria quanto più ci si interroga sui problemi della genesi dell'opera, e su questioni a essa correlate queli: i suoi rapporti con le fonti antecedenti il libretto approntato da Cesare Sterbini per Rossini e la funzione specifica della musica. A tutti questi interrogativi, e a molti altri, il lavoro di Lamacchia risponde con le armi pacifiche (ma non troppo) di una trattazione sistematica capace di sfatare luoghi comuni sedimentati nel corso di una ricezione di circa due secoli.Il mito per eccellenza da capovolgere è quello che ruota intorno al personaggio di Figaro: figura sì centrale e straordinaria per la riuscita artistica dell'opera, ma non per quelle virtù di abile statega (artefice del matrimonio tra il Conte e Rosina) che tradizionalmente gli vengono attribuite, semmai per il loro esatto opposto. Figaro insomma «si mostra come un machiniste molto più goffo che astuto, un meneur d'intrigue perdente e non vincente....[continua su 'Nuova Rivista Musicale Italiana', 2/2009]
Recensioni
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Nel melodramma di primo Ottocento i cantanti sono importanti non solo perché cantano, ma anche perché attorno a loro si costruisce l'opera. Librettisti e compositori sanno già, prima di mettersi al lavoro, chi sarà l'interprete di un personaggio, e il suo profilo risulta frutto di scelte incrociate, che tengono conto del corpo (capacità vocali, timbro, portamento), del carattere, del repertorio di quel cantante e di ciò che il pubblico si aspetta da lui. Esempio: il Barbiere nasce su misura del primo Almaviva, Manuel García. È la tesi principale del libro di Lamacchia, suffragata dalla ricognizione dell'archivio del duca Sforza Cesarini, impresario del Teatro Argentina di Roma, in cui l'opera fu creata; e dall'indagine sulla figura e sul repertorio del tenore, specializzatosi in personaggi potenti, di temperamento bellicoso, sicuri di sé. Si spiegano così alcune modifiche nell'intreccio, rispetto alla fonte teatrale di Beaumarchais: per una situazione del finale del primo atto, Rossini e il librettista si ispirano addirittura a Il califfo di Bagdad, composto e cantato dallo stesso García.
Una tradizione esegetica ideologicamente orientata seppure dai toni sfumati riconosce invece in Figaro il personaggio più importante dell'opera, l'alfiere della borghesia che prende possesso del mondo e si affaccia alla storia. Ha influito, in questo, la ricezione politica di Beaumarchais. Anche Le mariage de Figaro è stato caricato di intenzioni distanti da quelle del suo autore, per il quale Figaro era tutto meno che dotato di coscienza politica. "Del più schietto dei popolani" si è voluto fare "un protoborghese, il simbolo dell''uomo nuovo' (
) e del 'mondo nuovo' contro il 'vecchio mondo' aristocratico". Il vero Figaro è ridimensionato: nella commedia, ma soprattutto nell'opera, non è colui che conduce il gioco e lo porta a buon fine, bensì un macchinatore perdente. Nel Barbiere le sue trovate sono bislacche, la sua straordinaria abilità è millantata: egli appartiene piuttosto alla schiera di baritoni-bassi buffi che le sparano grosse, suscitando il riso per lo scarto tra le parole con cui si incensano e i fatti che le smentiscono. Però la musica dice l'opposto: la vitalità del factotum deborda sugli spettatori, e lui si prende la sua rivincita, mentre la grande aria del tenore nel secondo atto è meno interessante.
In parte anticipate da un bel saggio comparso nel volume dedicato al Barbiere di Paisiello nella collana dei "Libretti" della Fenice, le idee di Lamacchia, a lettura avvenuta, sembrano di semplicità disarmante: come mai non ci siamo arrivati prima? Vuol dire che l'autore ha colto nel segno. Le sue bacchettate revisioniste sono fastidiose, ma salutari. Giustamente, non costituiscono il perno del libro: sono accennate in pagine appuntite, a capo e in coda. Chiamano in causa la legittimità dei confronti tra storia delle idee e storia delle arti: in una parola, quelle competenze interdisciplinari che da decenni la scuola secondaria si sforza di inculcare. Però quei confronti un po' forzati, le semplificazioni frutto di letture "a posteriori", gli agganci tra storia delle idee e creazione artistica, scientificamente indifendibili, vorremmo proprio difenderli. Almeno dal punto di vista didattico: sono esempi fulminanti che allenano la mente; scorciatoie necessarie che offrono punti di ancoraggio nella divulgazione.
Cadono altri luoghi comuni (come quello del fiasco romano dovuto ai nostalgici di Paisiello, a cui nel 1816 nessuno pensava più: la recita fu forse boicottata da un teatro rivale) che riguardano uno dei capolavori più travisati della storia del melodramma, non solo dal punto di vista delle esecuzioni precedenti la Rossini renaissance. Il libro lo esamina sotto la forma tradizionale della monografia (genesi; fonti del libretto; presentazione dettagliata dei numeri della partitura), arricchita dai necessari apparati (esempi musicali; tabelle; bibliografia; elenco dei nomi; cd rom con libretto e varianti presenti in partitura), e da due ulteriori pregi: suddivisione ben articolata, con titoli dei paragrafi assai lunghi, che ne sintetizzano il contenuto a colpo d'occhio; espressione precisa, non esente da alleggerimenti e benefiche boutades.
Marco Emanuele
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