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In più di un passo dei saggi teorici e politici che compongono questo volume, Sebastiano Timpanaro, appartato e formidabile protagonista della vita culturale italiana, cerca di mettere le mani avanti. Non dovete credergli. Per naturale ritrosìa, e per limpido costume morale, non certo per falsa modestia, sostiene infatti di essere un dilettante tutte le volte che si avventura su un terreno diverso dalla filologia classica, unico campo in cui ammette di possedere competenza e abito "tecnico". Escludendo, quindi, come campo di conoscenze appunto "professionali", anche il Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, titolo di un libro (1965) destinato a sedurre una generazione e a diventare celebre, come l'esattamente contemporaneo e quasi in tutto antitetico Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa. Ed escludendo altresì gli interventi sul "suo" Leopardi. Vi è stato tuttavia un solo Timpanaro. Non vi è stato, soprattutto, un Timpanaro dei "cruscanti" e un altro dei "rivoluzionari". Quasi che il primo fosse recluso in un universo separato e il secondo fosse ostaggio di pulsioni velleitarie. In ciascuno dei saperi e dei sentieri su cui si è cimentato - la filologia classica appunto, la critica delle fonti e dei testi, l'italianistica e la storia del Settecento e dell'Ottocento letterari, la filosofia del secolo dei Lumi e di quelli successivi, il materialismo storico, la psicoanalisi, la teoria politica, la politica pratica - Timpanaro si è in realtà calato, sospinto da una passione dubbiosa e tormentata, con eguale rigore e serietà. Tutte queste inesauste esplorazioni, tra l'altro, pur tra loro diverse, pur praticate con ineguale continuità, sono affratellate da un implacabile e palpabilmente doloroso razionalismo. Si intrecciano tra loro. Si condizionano direttamente e indirettamente.
Negli ultimi saggi, a partire dalla fine degli anni ottanta, Timpanaro ci regala anche qualche frammento di autobiografia. Nato da genitori entrambi intellettualmente illustri, agnostici, antifascisti, Sebastiano si è portato dietro il cruccio di non avere partecipato militarmente alla Resistenza. Gli mancarono "la lucidità politica, la convinzione, il coraggio", come, con un'onestà che imbarazzò più noi che lui, confessò nel 1989 su "Giano", la rivista di Luigi Cortesi, curatore e prefatore di questa raccolta. Dopo la guerra, pur ponendosi nella tradizione di Lenin, non poté sopportare lo stalinismo, il moderatismo, e anche il clericalismo politico, del Pci di Togliatti. Aderì allora, con umori insieme massimalistici e democratico-libertari, al Psi di Nenni. E poi allo Psiup. Il primo saggio presente nel volume appartiene a questa seconda fase. Si intitola Considerazioni sul materialismo. Comparve nel 1966 sui "Quaderni Piacentini". Fu un testo decisamente controcorrente nell'ambito dell'italo-marxismo. Volgendo le spalle all'hegelocentrismo allora in voga (nient'altro che un "residuo teologico"), all'idealismo paracrociano a suo avviso presente in tutta la tradizione della sinistra italiana (a cominciare da Gramsci), ad autori allora assai studiati come Korsch e come Lukàcs, Timpanaro sottolineò l'importanza dell'ultimo Engels e del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo. Soprattutto, sottolineò il rilievo della "sottostruttura" biologica e fisica dell'uomo, vale a dire l'insormontabile elemento "passivo" presente nella natura. Sebastiano si rivelò così un unicum nel panorama italiano. Affiancandosi a Leopardi, fu, tra tanti "volontaristi" ottimisti, un seguace "pessimista" e "antiprogressista" del materialismo storico. Rimase peraltro libertario. E colse precocemente, su una rivista "filocinese" come "Nuovo Impegno", il carattere oscurantistico del culto della personalità di Mao, e della stessa rivoluzione culturale, strumento feroce di lotta interna al partito e certo non battaglia antiburocratica. Rivalutò, con una criptocitazione di Marx, quel "cane morto" di Trockij, capro espiatorio allora dei gruppi e movimenti postsessantottini, abbacinati e fuorviati dalla Cina. Deprecò il fatto che il Pci, con il placet dell'Urss, fosse uscito sì dallo stalinismo, ma in direzione della socialdemocrazia. Il che, per lui, non era esattamente un complimento. Anche se fu sempre un grande ammiratore di Matteotti.
Fuori dalle urgenze degli anni settanta, e polemizzando, ospitato dal prediletto "Belfagor", con il "dolce stil novo" di un Adriano Sofri approdato a "Panorama", tornò in seguito sul materialismo, e su Marx e Leopardi, due grumi teorici da non coniugare, ma da considerare complementari. Engels, Lenin e Trockij, pur sempre presenti, sfumarono un poco. E fu qui che al rosso si affiancò il verde, un verde che però doveva essere consapevole del fatto che chi minacciava l'equilibrio del pianeta era il capitalismo. Restava, comunque, come dato incontrovertibile, la fragilità biologica dell'uomo. Anche il comunismo, se mai fosse venuto, era destinato a essere inghiottito da un mondo in declino. Da un sole che si raffredda. Da un evento cosmico. Anche la lotta di classe, come il singolo individuo, aveva davanti a sé il nulla. Quello di Timpanaro, comunque, voleva essere, in sintonia con Leopardi, un "pessimismo agonistico". Un pessimismo che azzerava ogni consolatorio finalismo antropocentrico. Ma "agonistico", perché il mondo, anche se sprovvisto di senso, doveva pur essere attraversato, come avevano ben compreso Epicuro e gli antichi tanto amati, con spirito di giustizia e in piena libertà.
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