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C'è un mondo vicino a me che sembra un bel posto, e forse lo è, ma in fondo non lo è. Un mondo fondamentalmente ricco, di gente per bene, imprenditori, banchieri alla ricerca di un po' di tranquillità. Oscurato dalla città vicina, che è la capitale putativa d'Italia e lo sappiamo tutti che lo è sempre stata, Milano. Dunque, se non parliamo di Milano, di chi parliamo? Ne avete sentito parlare tutti, almeno una volta all'anno. Quando c'è il Gran Premio. Monza. A Monza vivevano quattro (o cinque?) figli di buona famiglia adolescenti durante gli anni Novanta, gli anni più di limbo di questo mondo. Limbo degli anni novanta, limbo di Monza, un limbo al quadrato che porta i nostri giovani eroi a inventarsi la qualunque, così, per ridere. Si inizia con un muletto buttato giù da una scarpata, si arriva a ubriacarsi a tredici anni, si sconfina nella magica polvere bianca, si finisce per correre su per un condominio per scappare a una retata, o a perdersi in un bosco per trentatré ore. Sempre tutto così, per ridere. La scrittura è precisa, non si perde mai in fronzoli, arriva diretta a dire quello che deve dire. Ci fa perdere con loro, con i loro deliri, con la loro difficoltà di distinguere la realtà da quello stato mentale alterato che ti fa vedere tutte le strade di Monza come un circuito. E l'immaginarsi quanta verità ci sia, dietro a ogni parola, un pochino spaventa. Un romanzo d'esordio eccezionale per questa banda di scappati di casa, che non mi spiego come siano qui per raccontarcelo.
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