"L'uragano non ruggisce in pentametri giambici!". Così il poeta Kamau Brathwaite arringava una platea di scrittori e studiosi per spronarli a individuare una voce propria, un accento, un tono, un ritmo che restituissero in versi, ma anche in prosa, la lingua composita dei Caraibi. Ed è forse questo che fa Jamaica Kincaid nel suo ultimo romanzo: abbatte un uragano di parole sul lettore. A volerlo leggere ad alta voce, occorrerebbe prendere un lungo respiro e poi centellinare il fiato, per seguire una sintassi che conosce solo virgole e paragrafi che durano pagine e pagine; e si arriverebbe comunque senza fiato, avendo mancato il traguardo, al punto fermo. Sarà per questo che a tre quarti del romanzo, in un dialogo tra madre e figlio, si legge: "'Prendi fiato, fai una pausa qui', disse la signora Sweet, e prese il libro con una mano e pensò di appoggiarselo sulle ginocchia, ma non lo fece". Vedi adesso allora è il titolo nonsense (un gioco di parole che allinea presente e passato in modo non cronologico e non gerarchico) di un romanzo la cui sperimentazione formale accompagna la confusione dei piani temporali. Vero protagonista è il tempo, secondo alcuni commentatori. Eppure anche la parola ha una sua potenza devastatrice: scritta come fosse pensata-parlata, per descriverla si dovrebbe piuttosto ricorrere allo stream of consciousness. Niente di diverso da quel che facevano i modernisti, del resto, ma una sfida non da poco per la brava traduttrice Silvia Pareschi. Eppure, anche questo sarebbe riduttivo. Siamo forse di fronte, come scrivono i recensori americani, a un vero e proprio capolavoro? La parola qui è esercizio, in stile cataclisma naturale: "E allora, proprio allora, le sue parole si gonfiarono nell'ululato di un possente corpo d'acqua che precipitasse giù da rocce strappate alla cintura stessa della terra da una violenta eruzione e adesso in equilibrio precario, con l'acqua che scorreva ininterrottamente sopra e intorno e sotto, e tutto questo a un'altitudine povera di ossigeno, e la voce della bambina faceva male alle orecchie, quel motivo creato da serie e serie di note ripetute in ordine e poi di nuovo nello stesso ordine faceva molto male alle orecchie. Ma la signora Sweet si mise a preparare il soufflé di granchio". Il potere delle parole di tuonare, d'inveire, di cantare, di tacere se solo pensate, di ferire se proferite, gridate, scagliate contro, di amare se non dette ma mimate da gesti d'amore e di dolcezza. Questo piuttosto è il personaggio, la materia del romanzo. Questo uragano di parole è più simile a un canto, un blues che procede per accumulo e ripetizione, improvvisato e con variazioni sul tema. Non proprio un notturno, o meglio, non esattamente il notturno a cui lavora chiuso nella sua stanza sopra il garage l'ipocondriaco e accidioso signor Sweet, intitolato Questo matrimonio è morto. Perché la fiaba della "dolce" famiglia, del signor e signora Sweet, della bellissima Persephone e del giovane Heracles, è un lento dramma nel pieno rispetto delle unità di tempo, luogo e azione, condito di citazioni letterarie dalla mitologia ai drammi classici. Il signor Sweet è un bianco di New York, magro, calvo e rancoroso per essere stato strappato alla città e gettato in un paesino di provincia. Artista incompreso e isolato, non perdonerà mai più nulla a sua moglie, "quella brutta strega arrivata con la nave delle banane". Lei è una donna grassa che invecchia con le sue manie e stravaganze, come il giardino che riempie compulsivamente di fiori e piante importate, che rammenda calze e produce maglioni ai ferri, che cucina piatti complicati dopo giorni di preparazione, che tiene insieme la vita di tutti con maestria da giocoliere e proprio per questo da tutti è derisa con imbarazzo, odiata dal marito e dalla figlia. Solo il figlio la ama, la adora, la chiama sempre due volte ("Mamma, mamma"); da lei si fa leggere racconti mitologici e gioca battaglie fantastiche fra Mirmidoni e Tartarughe Ninja. Chi vuole leggere in quest'opera l'autobiografia della "cenerentola", arrivata adolescente da Antigua come ragazza alla pari, riscattatasi sposando il figlio dell'editor del "New Yorker" e lavorandovi come giornalista, abbandonata poi per una più giovane musicista, perderebbe di vista il filo rosso che percorre molti scritti di Kincaid. La sua è infatti una perenne riscrittura dello stesso libro, della stessa storia: la storia di sua madre e del conflitto che a lei la legava. Quella Lucy, ragazzina ribelle e luciferina dei primi romanzi, s'immagina qui vecchia e grassa, un po' Penelope, un po' Filomena e un po' Demetra, divenuta madre a sua volta incarnando iconicamente la matriarca afroamericana. S'immagina ancora intenta a scrivere la storia dolorosa della sua infanzia, di sé figlia cresciuta senza padre, con una madre bellissima, maga e "orca", freudianamente odiata e altrettanto amata, severa e tanto dominante da doversene allontanare. Proprio questa storia s'inscrive e s'innesta nel romanzo, ed è ciò che distrae la signora Sweet (scrittrice, giardiniera, tessitrice) dai suoi doveri di madre, e che le viene rinfacciato con quel rimprovero di parole a cascata della figlia: "Noi non contiamo niente per te, solo la tua infanzia con tutto il suo dolore, come se nessuno avesse mai sofferto nell'infanzia, come se solo tua madre fosse mai stata crudele con sua figlia". Carmen Concilio
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