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"Uno sguardo mi ha reso così stupido, che non sono più. Ho perduto la mia bella visione cristallina del Mondo, sono un antico re; sono un esiliato da me", scriveva Valéry a Gide nel luglio 1891 a poche settimane dalla crisi genovese. Il desiderio di sottrarre il reale alla banalità dello sguardo ha nutrito la sua riflessione sulla visibilità, ripercorsa da Valerio Magrelli in un saggio che sin dal titolo esplicita il tema dell'autoscopia, cioè l'atto dell'autocontemplazione, uno dei motivi principali dell'opera valériana.
In una recente affollata conferenza al Collège de France - dove è stato invitato da Yves Bonnefoy e Carlo Ossola nel segno del dibattito culturale che anima l'istituzione parigina - Magrelli ha analizzato le diverse modalità della visione così come si configurano attraverso lo schermo del vetro, l'azione dello specchio e lo spazio della fotografia, soffermandosi sul ritratto fotografico come forma di fissazione identitaria.
Il suo tentativo di ricostruire la dinamica che presiede alla formazione della domanda sull'identità attraverso la funzione dell'occhio segue il percorso valériano, alimentato da un doppio movimento: l'incontro con un interlocutore garante di alterità, e la contemplazione della propria immagine prima riflessa poi fotografata: il compito della fotografia è di mettere in scena la principale funzione della memoria, consistente nella proprietà di tornare a se stessi, "un continuo disconoscimento-riconoscimento che rientra in un più complesso sistema epistemologico, la cui posta in gioco è lo statuto sociale e plurimo del soggetto". L'indagine su questa quête, che solleva la problematica relativa alla conoscenza e all'utilizzo da parte di Valéry della tradizione gnostica, porta nel vivo delle ricerche condotte nell'ambito della psicologia sperimentale e cognitiva, della bioetica, della zoosemiotica. È il fascino poetico per le scienze esatte: il tema dell'occhio annuncia la domanda sull'io, l'indagine fenomenologica si interseca con quella iconografica.
Magrelli ci avverte che torna su tracciati anche già noti, affinché i materiali diversamente disposti e orientati dischiudano un senso ulteriore. Nel ricchissimo apparato dossografico, che contempla prospettive filosofiche e analitiche, ritroviamo con piacere un elegante studio di Massimo Scotti sul mito ofidico nell'immaginario valériano (Ces vipères de lueurs, Bulzoni, 1996). Nello spazio elettivo dell'allegoria ofidica si rintracciano i significati simbolici associati al mito draconico, espressione di un passaggio di poteri fra il dominio ctonio e la sfera celeste. Ma l'ofidio potrebbe essere uno specchio istintuale che riflette le forze distruttive della natura: il drago è allora la psiche, il fondo oscuro, un nemico interno che diventa oggetto di estraneità. È la storia di un'energia proiettata nel mondo o è il diario di un'introversione? - si chiedeva Italo Calvino commentando lo sguardo dei pittori sul combattimento di San Giorgio. Perché per gli scrittori, come per i pittori - ha osservato Jean Starobinski -, l'avventura si prolunga ben oltre la prima visione.
"Offerta ai giorni più duri, la pagina tenebrosa / illumina sui miei tratti il dubbio che vi scava", scrisse Valéry a Henry Mondor: un dubbio di cui Magrelli, ripercorrendo la tradizione classica del mito di Narciso, la storia delle immagini e il processo formativo che condusse il poeta francese alla mise en abîme della visione, ci racconta le sorprendenti implicazioni.
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