“Per me una fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, da un lato del significato di un fatto, e dall’altro di una organizzazione rigorosa di forme visibili che esprimono questo fatto”. Al termine di un’intervista del 24 maggio 1957 Henri Cartier-Bresson chiede di concludere la conversazione con questa dichiarazione “formale”, tolta dalla prefazione al suo libro del 1952, Images à la sauvette.”.
Benché prive di immagini, queste dodici interviste ormai introvabili raccolte, a dieci anni dalla scomparsa di Cartier-Bresson, da due importanti storici della fotografia attivi al Centre Pompidou, sono l’introduzione ideale alla grande mostra in corso a Parigi, e in procinto di giungere a Roma il prossimo settembre. La precisione, la profondità, l’essenzialità del linguaggio ne fanno una lettura appassionante. “Contro la disgregazione dovuta alla banalità, al caos, all’oblio” la fotografia, o meglio, “lo scatto”, azione “a metà strada tra il gioco del borsaiolo e del funambolo”, salva l’istante e lo rende eterno, isolando il “momento decisivo”, il dettaglio significativo, dal caos dell’indistinto. Ma, attenzione: il momento dello scatto è irripetibile. Dev’essere preso al volo, o è perso per sempre. Non puoi chiedere a una ragazza di rifarti il suo sorriso, quel sorriso non sarà mai più lo stesso. Lo scatto nasce perciò da una concentrazione estrema. Lo “sguardo” è istintivo, ma la capacità di vedere, è una faticosa conquista: “solo una tensione permanente permette di catturare la realtà”.
La piccola, maneggevole, inseparabile Leica di Cartier-Bresson diventa così il prolungamento dell’occhio del fotografo. Lo scatto cattura la realtà perché non la deforma in alcun modo, né prima né dopo. Mai flash (“sarebbe come andare al concerto con un revolver”), mai filtri, quasi sempre obiettivo 50 mm: né grandangolo né teleobiettivo ma visione “normale”, tranne che per i rari paesaggi (“i paesaggi sono eterni, io vado di fretta”). E, soprattutto, mai Cartier-Bresson ha permesso di “tagliare” una sua foto nella pubblicazione. L’immagine non deve, non può essere “corretta”. “L’unico modo per correggere uno scatto è farne un altro”. “L’autenticità è senza dubbio la più grande virtù della fotografia”. Ma realtà interpretata: non per nulla Bresson rifiuta il colore per “la forza di astrazione del bianco e nero”.
In questi magnifici testi non c’è solo teoria. C’è, in scorcio, una vita. Le avventure giovanili in Africa (“mi mantenevo cacciando di notte caprioli, coccodrilli, facoceri, antilopi, scimmie”), la passione per la pittura, il cinema (è stato “secondo assistente” dell’amatissimo Jean Renoir), le letture (“Joyce e Proust non mi stancano mai”), le tre evasioni dai campi di prigionia tedeschi, la fondazione dell’agenzia Magnum con Robert Capa e David Seymour (Chim), caduti tragicamente entrambi durante il lavoro, l’assassinio di Gandhi, che “meno di un’ora prima” stava sfogliando con lui il suo libro di fotografie.
Fondamentale l’avventura Magnum. “Capa aveva un talento organizzativo, Chim era il filosofo e io avevo una visione estetica”. “Eravamo completamente diversi, ma tra noi in fondo c’era armonia. Capa era un ottimista, Chim un pessimista. Io ero un impulsivo”. O piuttosto un poeta. “La poesia è l’essenza di tutto”.
Andrea Casalegno