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Periodizzabile e segnata da svolte decise, l'attività di Franco Vaccari si pone sotto un'unica stella, riconoscibile e coerente: la tagliente ironia che colpisce, mutate le strategie, i dispositivi, i contesti, l'autorità fotografica; o se si preferisce le retoriche Magnum dell'attimo decisivo, dello scatto ineguagliabile. Sin dagli esordi, con le serie dedicate al popolo domenicale di contadini, operai e segretarie che affolla le rive del Secchia e le balere improvvisate sul Po, Vaccari sceglie di inseguire fotograficamente il margine, il fuori campo, quanto sta in instabile equilibrio tra mondi eterogenei e non gode ancora di cittadinanza o di racconto.
Che cos'è il climax di una fotografia? Come si stabilisce (e chi stabilisce) che qualcosa è climax? Lo sguardo girovago, distratto (Vaccari direbbe "ariostesco") sembra non meno promettente, come pure l'incontro, la scoperta casuale. Certo, accade negli Stati Uniti che giovani fotografi tra sessanta e primi settanta sperimentino lo scatto seriale (l'"inconscio ottico") o siano attratti dal "banale quotidiano": ma individuare negli sconosciuti Ed Ruscha o (in seguito) John Baldessari i propri interlocutori, scoprendoli magari in esili volumetti d'artista che hanno attraversato chissà come l'Oceano, è parte dell'originalità di un percorso, della sua necessità poetica e critica.
In occasione della performance Maschere, tenuta nel 1969, Vaccari chiede ai visitatori di entrare in una stanza buia e dà loro una maschera che reca impressa l'immagine fotografica di un uomo. Quindi illumina selettivamente questo o quello spettatore (con una pila) e lo ritrae nel gesto istintivo con cui, per difendersi dalla luce improvvisa, questi porta al volto la maschera mostrandosi quale non è. La fotografia è un semplice "specchio" della realtà o una sua distorsione? Quale è il ruolo dei media o degli artisti che impiegano immagini fotografiche nella costruzione del mondo "reale"? Alla Biennale del 1972 dispone una cabina per fototessere all'interno della propria sala, invitando gli spettatori a autoritrarsi: il pubblico diviene coautore. È singolare che il ruolo dell'artista risulti così tanto socializzato (in modi quasi beuysiani) a poche sale di distanza dalla Seconda soluzione di immortalità di Gino De Dominicis: la diversità degli interventi non potrebbe essere maggiore. L'artista in nero (De Dominicis) lavora sul sistema dell'arte, e a questo rimanda; Vaccari si interessa alla folla anonima dei visitatori. Il passo indietro rispetto al proprio ruolo riflette la consapevolezza circa le implicazioni politiche dello sguardo, l'autoritarietà, l'opportunismo, la brutalità dello scatto fotografico. Nascono progetti mirati alla costruzione di un luogo "privato" (oggi diremmo relazionale) all'interno del luogo pubblico riservato all'esposizione: salottini, ambienti lounge, caffè che disattendono la gerarchia di ruoli incoraggiata dal sistema e agita malgré tout dal narcisismo dell'autore.
Nel catalogo della mostra al Museo cantonale d'arte di Lugano (febbraio-marzo 2008), concepito come progetto autonomo, l'artista dedica a ogni opera una descrizione/ricostruzione (in apparenza) retrospettiva. L'opera esiste (solo) nel racconto; il racconto nell'esperienza e nella memoria. Michele Dantini
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