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Gli articoli che Ansaldo scrisse sul feldmaresciallo Paul L. von Hindenburg e che furono pubblicati tra il 1932 e il 1935 sul quotidiano genovese "Il Lavoro" sono qui raccolti insieme a quelli che l'ex collaboratore a "La Rivoluzione liberale" di Piero Godetti, e poi direttore del "Mattino" di Napoli, dedicò tra il 1953 e il 1956 a un secondo von Hindenburg, il barone Herbert, cugino dell'eroe di Tannenberg, sulle pagine del "Borghese" di Leo Longanesi. Comune a entrambe le raffigurazioni è la rievocazione di un mondo sociale, economico, e culturale, dai tratti in gran parte premoderni: quello appunto dei vecchi latifondisti ostelbici, fatto di disciplina militare, senso della gerarchia, fedeltà verso la monarchia Hohenzollern, campi di barbabietole e grettezza contadinesca, inesorabilmente destinato a scomparire sotto i colpi del nuovo. Che il nuovo abbia poi assunto le fattezze della guerra, della sovversione sociale o della croce uncinata poco importa: la sensazione suggerita dalle pennellate di Ansaldo è quella di un mondo sospeso tra il non già e il non ancora, che sembra sopravvivere a se stesso anche dopo la tragedia. È a partire da tale prospettiva, non del tutto esente da un certo gusto retorico per la commemorazione nostalgica, che può essere compresa sia l'ammirazione del giornalista italiano per il vecchio Hindenburg, capace, a suo parere, di tenere a bada il caporale austriaco meglio di quanto avesse fatto a suo tempo Facta con il ras di Predappio, sia l'affetto e la stima personale nutrita per il più giovane cugino che, innamoratosi dell'Italia sin da quando era venuto per la prima volta a Roma al seguito delle delegazioni tripliciste, non poté più fare a meno, "come quei cavalli che si purgano con l'erba", di visitare, fino al giorno della scomparsa, gli orti dell'Ardenza livornese in cerca di verdure tenere. Federico Trocini
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