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A me pare che il racconto abbia diverse buone qualità. A partire dal nomignolo “Arcuni” affibbiato dalle nipoti alla zia, perché quella dei nomignoli che restano appiccicati alle persone a causa di qualche curioso aneddoto vissuto dagli stessi, è cosa affatto rara. Trovo suggestive le amplificazioni dotali delle sorelle, provviste di spiccato senso armonico, che racchiudono l’armonia universale, l’una filtrandone la musica e l’altra i numeri. Bella mi pare la trovata della rappresentazione popolare per il tramite di una poetica ingenuità che si manifesta con una fantomatica consumazione del pasto da parte dei personaggi del presepe. Credibile la “fissazione” di un possibile ritorno a casa da parte del milite disperso in guerra, diversi decenni dopo la fine del conflitto, subita dalla sventurata madre che, come un ritornello, sogna spesso il figlio fra i campi di girasole della Russia, e credibile che la stessa muoia trafitta dal chiodo fisso del figlio sventurato morto in guerra. Leggero e naturale il dialetto, scritto secondo i canoni colti della scuola del maestro Enzo Romano. Insomma, “U suònnu rî ggirasoli” mi appare come una snella pagina di concreta realtà amastratina per via del dialetto che si fa tessuto narrativo, ma essendo il dialetto una lingua del mondo, essendo la guerra croce terrestre, essendo la musica e i numeri contorni umani di ogni latitudine, la collocazione della storia, accidentalmente ambientata a Mistretta, si eleva a 360 gradi in ogni dove del globo.
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