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Un cappello da mago, un quadrato di panno nero, quattro fogli di cartone, una maschera, un dentone, un pacchetto di palloncini gonfiabili sparsi in un prato nella notte silenziosa. Un bambino di dieci anni raccoglie ogni cosa e cerca di rimetterla al suo posto. Poi stringe fra le mani un coniglio malconcio e lo deposita con cura nella scatola legata alla bicicletta. M. L’Estrange, l’illusionista, è disteso per terra, senza forze, ubriaco fradicio ma capace ancora di tenersi aggrappato alle parole con un guizzo: «A quanto pare, amico, il mio destriero e io abbiamo preso strade diverse». Il bambino lo ha aspettato come ogni anno per assistere al suo spettacolo di magia nella scuola elementare di Beannafreaghan, dove suo padre è direttore e insegnante: seguire l’illusionista nei suoi vagabondaggi è il sogno che il bambino insegue da sempre, ma adesso che M. L’Estrange e suo padre si sono affrontati, pieni d’alcol e di vecchi livori, in un litigio violento, quel sogno sembra destinato a non durare a lungo. Negli stessi anni ma in un altro luogo d’Irlanda, nella contea settentrionale del Donegal, una donna di mezza età accarezza un piccolo gallo, che ha allevato come un figlio assecondando la passione del marito per i combattimenti e le scommesse clandestine. È un animale straordinario, un lottatore nato, ma lo hanno appena fatto scontrare con la bestia più grossa e feroce di tutto il Paese. Ora è pieno di ferite, agonizzante, e non è detto che riuscirà ad arrivare vivo al termine di quel viaggio in automobile che sarà per Annie l’inizio di una nuova vita. Sempre nel Donegal, nella cittadina di Mullaghduff, Harry Quinn alleva un colombo con il quale vuole vincere il campionato nazionale d’Irlanda, e ancora nella stessa contea, lungo un promontorio che corre parallelo alla costa atlantica, in un luogo denominato «la valle delle allodole», quattro uomini si preparano a disseppellire il cadavere di un aviere caduto in guerra per riportarlo in Germania. Quella valle in primavera è uno dei posti più belli del mondo, «con il mare che si perdeva lontano nel cielo caldo e un sole alto e limpido che creava uno sfavillio di luci sulla campagna cosparsa di rocce di granito», un posto dove anche quando si è già morti e sepolti «la vita continua a palpitare tutt’intorno».
È l’Irlanda di Brian Friel, piena di orrori e meraviglie, come appare nella raccolta di racconti tradotti magistalmente da Daniele Benati e presentati dall’editore Marcos y Marcos con il titolo Tutto in ordine e al suo posto. Sono storie ambientate a volte in luoghi riconoscibili, altre volte affidate a toponimi immaginari ma sempre ancorati a paesaggi che si presentano ai nostri occhi con estrema nitidezza, in un’Irlanda resa universale dal talento di Friel. Le vicende sono accomunate dal tema della disillusione che stempera i grandi entusiasmi e le passioni perseguite con la caparbietà che hanno i bambini, quando si trovano immersi nel grande sogno cui vorrebbero affidare tutto il loro avvenire. Ognuno dei personaggi che troviamo in queste meravigliose storie irlandesi si imprime nella memoria con una forza sorprendente, per la straordinaria capacità che Friel possiede di chiudere un’intera esistenza nel giro di una vicenda esemplare, che si snoda con l’andamento piano della vita quotidiana, aprendosi di tanto in tanto a momenti imprevedibili di magia.
Sono temi, personaggi e immagini guida ai quali Friel ha affidato anche i suoi lavori teatrali, quelli che gli hanno dato la notorietà. Fondatore, insieme a Stephen Rea e Seamus Heaney, della Field Day Theatre Company, Brian Friel (1929-2015), quasi sconosciuto in Italia, è uno dei più grandi autori contemporanei di lingua inglese, le cui opere sono rappresentate da più di mezzo secolo nei maggiori teatri del mondo, da Dublino a Broadway:Philadelphia Here I Come (1964), Lovers (1967),The Freedom of the City (1973), Faith Healer (1979),Translations (1980), Dancing at Lughnasa (1990), vincitore di tre Tony Awards e portato sugli schermi dal regista Pat O’Connor, hanno assicurato a Friel un posto fra i massimi drammaturghi dei nostri giorni. I suoi personaggi memorabili, insieme santi, ubriaconi, artisti, veggenti, ciarlatani, ansiosi di vivere una vita che inevitabilmente li tradisce umiliandoli, tenendoli ai margini o scartando anche solo di poco rispetto alle loro aspettative, sono dotati «di un potere o di una conoscenza non assoggettabili e che anzi li aliena dal contesto sociale rendendoli figure minacciose e temute», come scrive Benati nella sua bella postfazione.
Il fallimento dei progetti, dei sogni, delle semplici velleità è una costante di Friel ma, grazie alla sensazione di stupore e di sorpresa felice che si rinnova leggendo ciascuna di queste storie, viene il sospetto che il fallimento dei personaggi sorregga di volta in volta il riscatto del racconto. I piccoli inciampi o le grandi derive dei destini si portano appresso dei ripari di dolcezza che impediscono a queste vicende di ricadere nel novero delle tragedie senza redenzione: l’impressione che ci lasciano è piuttosto quella di una felicità resistente, che si deposita nonostante tutto in un mondo la cui asprezza è temperata dalla presenza di piccoli d’uomo e di animali, come il colombo appena nato che offre una testina da accarezzare, l’apprendista mago che si fa consolare seduto sulle ginocchia della madre o il figlio di Joe che si perde nel bosco «dongando» una torre, in un gioco misterioso inventato attorno alla tana di un coniglio. Non manca in nessuna vicenda una forma diffusa di accudimento, che si trasmette quasi per osmosi dalle donne, agli uomini e ai bambini, ma anche agli elementi naturali, agli oggetti domestici, alle modulazioni del paesaggio, passando attraverso lo stile di scrittura, limpido e misurato di Friel, che Benati ha saputo rendere con grande intelligenza e sensibilità in una traduzione capace di restituire appieno la meravigliosa esattezza dei dettagli e il potere d’incantamento che le cose della vita, anche nelle circostanze più terribili, portano sempre con sé, con la forza inesauribile delle grandi illusioni.
Nunzia Palmieri
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