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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Ho fatto fatica a ultimare la lettura di questo libro piacevole ma lento. Non mi sono affezionata ai protagonisti. La Malesia che viene raccontata nel mio immaginario terra affascinate e sconosciuta, e' rimasta solo sconosciuta. Inizialmente credevo di trovarmi di fronte a una versione vicina a" C'ent'anni di solitudine" di Marquez,ma nel proseguimento della lettura il paragone si e' fatto sempre piu' fievole .
Recensioni
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Ho realizzato una nano-indagine tra conoscenti e vicini di casa: "Se dico Malesia, che cosa vi viene in mente?". Non c'è stata molta varietà: Pirati della Malesia di salgariana memoria l'ha fatta da padrone. Qualcuno più abituato agli scali aeroportuali si è ricordato di due incredibili grattacieli i più alti del mondo? della capitale, Kuala Lumpur. Poi i discorsi si sono sbriciolati: le "tigri" del Sudest asiatico, non in quanto bestie feroci, ma come economie in ascesa, le barriere coralline, il Borneo e altre amenità turistiche.
Tutto il giorno è sera (Evening is the Whole Day) è il romanzo d'esordio di una scrittrice nata in Malesia, Preeta Samarasan, educata negli Stati Uniti, attualmente residente in Francia, di professione musicologa, ferrata soprattutto nella musica zigana. Questa semplice enunciazione descrittiva nasconde quasi senza volerlo la rilevanza "politica" dell'oggetto libro: non è scritto da un uomo bianco, ma da una donna di carnagione scura, in inglese e non nella lingua ufficiale della Malesia, neppure nella madrelingua dell'autrice, che proviene da una famiglia indiana tamil e che deve la sua formazione a sistemi conoscitivi "occidentali". Tutte queste fastidiose virgolette stanno a significare la difficoltà di maneggiare il manufatto libro prima ancora di iniziare a sfogliarlo. Per non dire del titolo, che deriva da un verso del poema epico tamil Kuruntokai, risalente ai primi secoli della nostra era.
Ma non stavamo parlando della Malesia? Appunto. Di un paese in cui essere "malese autentico", bumiputra, è il risultato di una complessa ingegneria politica avviata faticosamente negli ultimi decenni. Gli altri, i malesi "non autentici", sono i cinesi e gli indiani, tra cui maggioritari sono gli indiani tamil.
A scanso di equivoci, per leggere il romanzo di Preeta Samarasan non è necessario fare un corso accelerato di storia ed etnologia malese, basta andare alla prima pagina e cominciare: "C'è una terra che si protende dal collo sottile dell'istmo di Kra delicata come la testolina di un uccello, e forma la metà di un paese chiamato Malaysia". Continuare entrando in una saga familiare in cui si stratificano tre generazioni e dove lo sguardo narratore è spesso assegnato a una bambina di sei anni, Aasha, la cui relazione affettiva principale è quella con i fantasmi che popolano l'abitazione. Forse l'unica vera esperienza di amicizia, essendo l'intreccio delle altre relazioni quasi sempre giocato sulla corda della tensione, se non della contrapposizione, che produce in alcune protagoniste "agopensieri", "coltellopensieri". "Pensieri aspri come manghi acerbi (
) Una persona poteva esserti amica prima del tè e dopo il tè non esserlo più".
Una volta entrati in questa "Grande Casa" della borghesia tamil malese è difficile uscirne perché Preeta Samarasan è brava ad avvilupparti non solo con la trama a spirale, ma soprattutto con la selezione quasi perversa dei dettagli che costituiscono l'incanto della sua scrittura e che le traduttrici rendono con coraggioso transfert. Entrando nella Grande Casa si entra anche nella Malesia, ma sempre dalla porta del mondo tamil; gli altri, quello malese e quello cinese, stanno sullo sfondo. La tentazione di vedere questo romanzo come metafora della costruzione nazionale malese, la maledetta ketuanan melayu, supremazia malese, come l'apostrofano i cinesi e gli indiani in lotta per i propri diritti, è una voglia forte, ma improduttiva. Non mancano riferimenti alle vicende politiche della Malesia coloniale e postcoloniale, che le "Voci" e i "Fatti" raccontano a loro modo bisbigliando nel vento, ma sono il contesto, non il succo, che sta nelle anime dei protagonisti. Così come l'ombra del vellakaran, del muso bianco che ha calcato quelle terre, aleggia ogni tanto. Credo però che la pretesa non banale, ma arbitraria, che Frederic Jameson poneva vent'anni fa leggere qualsiasi narrazione postcoloniale come allegoria della nazione incipiente sia infondata. Come certi piatti tamil che devono stare a cuocere per ore impregnando di odore le stanze, così Tutto il giorno è sera è una lunghissima bollitura di sentimenti, attese, sogni, lancinanti dolori. Una corporea epopea in cui si mescolano parole e gemiti, incantevoli profumi e fetore di merda stagionata, realissime innocenze e spudorate malvagità. In questi corpi si gioca la vicenda della famiglia di Raju e della morte che fin dalle prime pagine non lascia tranquillo il lettore.
L'insistenza sui corpi, che nel romanzo danzano le loro vite, mi viene da un suggerimento che Krishen Jit, il mirabile uomo di teatro malese, propose qualche anno fa: nelle società plurali, come quella malese, si tende a pensare che il "multiculturalismo" sia una negoziazione tra corpi diversi, tra un corpo indiano tamil e uno malese o cinese, mentre invece esso si instaura in ogni singolo corpo. Le "altre" culture, aggiungo io, non sono mai meramente "altre", esse convivono in ogni individuo, nel suo corpo vivente in forme spesso imprevedibili e non cercate. È questa la ragione per cui il romanzo di Samarasan non è solamente un dramma domestico della Grande Casa tamil nella nazione Malesia, ma è l'epica impresa di tutti noi di stare al mondo insieme agli altri, ai corpi di altre culture, anche quando si tratti di culture maschili e femminili.
Questo non solo per l'ovvia, ma non sempre esplicita, ragione che la prima "multiculturalità" è quella di genere, ma anche perché leggendo Preeta Samarasan non ho potuto fare a meno di andare ad altre scritture asiatiche create da donne. E non mi riferisco solo alle note scrittrici del filone angloindiano, ma penso aMa Ma Lay, eminente scrittrice birmana e al suo La sposa birmana, in cui, come nel romanzo di Samarasan, c'è una donna, madre e moglie, che a un certo punto della vita si ritira dal mondo perché conquistata dalla perfezione di sé, da una spiritualità ascetica che la colloca su un piano che sfiora l'anti-umano. Familiari che non capiscono, disdegnano e nello stesso tempo subiscono attrazione da una vita contraria e contrariata. Un tratto che meriterebbe ulteriore scavo così da collegare il gesto ad altre scelte di corpi femminili in cerca di una vivibilità meno scontata e alle volte estrema. L'altra connessione è con Il messaggero celeste della vietnamita Pham Thi Hoai, in cui a condurre lo sguardo sul mondo è ancora una bambina che sa scorgere trasparenze dove gli altri vedono solo opacità. Una voce infantile che vede di più e meglio proprio per la sua visionarietà e il suo innocente irrealismo.
Un canone femminile? Domanda da lasciare aperta per future letture.
Claudio Canal
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