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Anno edizione: 2006
Anno edizione: 2021
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Gli anglosassoni hanno un tipo di scrittori da noi raro: il viaggiatore. Penso a Bill Bryson, Paul Theroux, William Least Heat-Moon, al gallese Jan Morris, a Bruce Chatwin, Eric Newby, Wilfred Thesiger, Lawrence Osborne, Colin Thubron, sir Ranulph Fiennes, Patrick Leigh Fermor. Favoriti dalla loro indole di esploratori e protetti dal colonialismo, hanno sviluppato una letteratura alla quale noi italiani possiamo affiancare solo Tiziano Terzani. Lawrence Osborne, propone una , dissacrante panoramica del mondo attuale. Lui è un nomade, ma ormai il pianeta è un grande parco a tema spacciato per natura incontaminata. D’altro canto la popolazione locale viene sempre incontro al turista e gli vende pure le figlie. Il viaggiatore e/o turista vorrebbe che se non tutto, almeno qualcosa fosse autentico, ma cosa è realmente Bali? Dubai almeno è un luna park costruito dal nulla. Turista e viaggiatore non sono la stessa cosa: il primo consuma ma resta un estraneo, il secondo ha interessi e curiosità. Eppure anche Osborne fatica a trovare i reali parametri della sua esperienza conoscitiva: l’altro cerca sempre di soddisfare le sue aspettative, vuoi per servilismo opportunista, vuoi per mantenere il suo mondo religioso e parentale lontano da occhi indiscreti. Osborne cita spesso Claude Levy-Strauss e Margaret Mead, grandi antropologi (la Mead tra l’altro è stata la prima a iniziare gli studi di genere) e anche pessimisti (si cita spesso Tristi tropici di Levy-Strauss). L’ultimo capitolo però è diverso dagli altri: l’autore, dopo un’opportuna preparazione, decide di vivere per qualche tempo in Papua Nuova Guinea, uno dei posti meno turistici del mondo, privo com’è di strade. L’autore si appoggia a una vecchia missione evangelica per addentrarsi nell’interno, con il necessario supporto di guide locali. Gli indigeni vivono nella foresta da millenni e la sanno lunga: sono loro che studieranno il “diverso” che hanno davanti.
Osborne è uno stupendo narratore e in questo libro è anche tradotto splendidamente. Il suo solito stile avvincente e brillante si avvale di qualche espressione o frase gergale messe a puntino. Con disinvoltura invidiabile egli parte per l'oriente ben disposto ad affrontare le affollate "disneyland" asiatiche, con quel misto di rutilante post-modernità e sapore ancestrale che donano all'abbacinato lettore quel tanto di straniamento che si disperde sulle sue giornate banali come la polverina della fata. E , dulcis in fundo, ecco l'avventura in Papua, tanto per assaggiare i'autentico primitivo incontaminato, con inevitabile dissenteria al seguito.... e tutto questo standosene sul divano di casa, in vestaglia, in una gelida sera di Gennaio..... Grazie Osborne!
Lawrence Osborne è uno straordinario "scrittore di viaggi". Molto inglese e un po' snob, è vero. Ma estremamente acuto, divertente, originale. Una lettura consigliata.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
La mia percezione di Bali è stata scossa da un libro di qualche anno fa: Il turista nudo (Adelphi, 2006) di Lawrence Osborne. Lo scrittore inglese definisce l’isola una “Disneyland indù” e spiega come l’immagine di una “Bali magica”, perla di antico induismo giavanese sopravvissuta all’islamizzazione, sia un “artificio coloniale” nato nel corso del Novecento per opera di artisti e antropologi come Walter Spies, Margaret Mead e Gregory Bateson, ma anche Clifford Geertz.
Al di là delle discoteche di Kuta, Bali è un luogo così pregno di sacralità e cultura fuori dal tempo, che per l’occidentale di passaggio è difficile credere che tutta quell’arte, ritualità, sensibilità estetica diffusa, siano solo il prodotto di una tradizione reinventata sulla scia dell’esotismo. Sarebbe interessante sapere che ne pensa Luigi Ontani. L’artista bolognese, attivo da diversi decenni e omaggiato da retrospettive al MOMA e al castello di Rivoli, trascorre buona parte del suo tempo sull’isola producendo opere venate di orientalismo (uso la parola nell’accezione neutra, senza il disprezzo che la circonda dall’uscita di Orientalismo di Edward Saïd): maschere e figure bizzarre in cui Ontani ibrida il proprio stile, già di per sé imitativo e parodico, con quello dell’arte balinese. Per l’editore Humboldt, Emanuele Trevi è andato a trovarlo, insieme alla fotografa Giovanna Silva, nello studio indonesiano. Quando arrivano, Ontani sta preparando un Ogoh-Ogoh, sorta di carro allegorico che dovrà percorrere l’isola in occasione di una processione alla fine della quale verrà bruciato. Integrato alla vita balinese, Ontani produce il proprio feticcio rituale e Trevi e Silva lo seguono: il primo con un bel testo che ne racconta la preparazione, con lo stile ammaliante di uno scrittore che con magia, mitopoiesi ed esoterismo va molto d’accordo, ed è quindi vicino alla sensibilità di Ontani. Le foto di Silva documentano i fatti e si presentano virate a colori legati al simbolismo cromatico dell’isola. Trevi cita anche la coppia Mead-Bateson ma senza dubitarne: ciò che cercano scrittore, artista e fotografa non è lo scetticismo. Cosa andasse cercando 150 anni prima Rimbaud a Giava se lo chiede invece lo scrittore e critico letterario statunitense Jamie James in un libro, Rimbaud a Giava, recentemente pubblicato da Melville edizioni. Prima di sparire in Africa Rimbaud partì per le Indie orientali arruolandosi nell’Esercito Coloniale Olandese, da cui disertò poco dopo l’arrivo a Batavia per fare non si bene cosa: perdersi nella giungla, girovagare, abbandonarsi a visioni. Intorno a tale buco biografico James congettura ipotesi, muovendo da episodi noti della vita del poeta per terminare in un micro-saggio sull’orientalismo che proprio in quegli anni impazzava nella capitale francese. Che Rimbaud fosse un adepto di cineserie è piuttosto dubbio, quello che è certo è che, a canale di Suez appena concluso, l’oriente stava smettendo di essere l’Altrove per antonomasia. Se Rimbaud si è buttato verso quei lidi, secondo James, è perché cercava gli ultimi bagliori d’incanto: gli stessi che forse ancora brillano negli occhi di Ontani, Trevi, Silva. Ma forse non in quelli di Osborne.
Recensione di Carlo Mazza Galanti
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