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Le prime frasi del libro
Lo so. Non ti fidi. Hai aperto questo libro per curiosità, magari con l’inconfessabile speranza di trovare la soluzione a tutti i tuoi problemi già nelle prime righe. Eppure, anche se una parte di te vorrebbe risposte facili a qualsiasi domanda, la tua prima reazione davanti a chiunque voglia aiutarti a cambiare il tuo modo di affrontare la vita è sempre la stessa: il sospetto.
«Ma che ne sa questo qui di come me la passo io?»
È solo una delle tante classiche frasi – dette ad alta voce, sibilate a denti stretti o ripetute in mente – con le quali costruiamo una barriera tra noi e chi ci viene incontro, tra le nostre difficoltà e chi potrebbe aiutarci ad alleviarle. La prima reazione è sempre improntata alla sfiducia e ci mettiamo subito sulla difensiva. Questo non perché siamo fermamente convinti di bastare a noi stessi, né perché pensiamo che gli ostacoli che ci tocca affrontare siano insormontabili, ma perché viviamo immersi nella nostra piccola particolarità, accecati da un orizzonte limitato, completamente assorbiti e annullati nella nostra individualità, al punto da illuderci che la sofferenza che ci attanaglia (piccola o grande, non importa) sia unica nel suo genere, una irripetibile rarità, impossibile da comprendere per un occhio estraneo. Delresto, siamo noi i primi a non conoscere nel profondo chi ci sta intorno, e forse proprio per questo presumiamo che nessuno possa conoscere noi altrettanto bene.
Noi e gli altri
Facciamo subito un esempio concreto. Prendete un foglio e dividetelo in due colonne. In quella sinistra scrivete le caratteristiche che – nel bene e nel male – fanno di voi le persone che siete. Datevi un limite di tempo molto stringente, un minuto al massimo, e buttate giù le prime cose che vi vengono in mente. Allo scadere del conto alla rovescia, prendetevi un altro minuto e cominciate a compilare la seconda metà del foglio. Stavolta dovrete elencare i tratti salienti di una persona che conoscete bene, magari qualcuno che vi è particolarmente vicino. Finito il tempo a vostra disposizione, confrontate le due liste.
A meno che non siate del tutto inconsapevoli del vostro carattere (e al tempo stesso incredibilmente capaci di cogliere ogni sfumatura di quello degli altri), il risultato sarà sempre lo stesso: nella colonna sinistra ci saranno un buon numero di aggettivi, magari un po’ vaghi, ma tutto sommato calzanti, che messi insieme restituiscono un quadro piuttosto lineare, un po’ di spunti a partire dai quali è possibile ricostruire un profilo personale. In quella destra, invece, ci saranno più che altro elementi marginali, dettagli che compongono un identikit sommario, spesso un po’ piatto e a volte decifrabile solo da chi l’ha realizzato. Qualcuno potrebbe obiettare: «Be’, è naturale! Io mi conosco come le mie tasche, mentre faccio fatica a capire gli altri».
In realtà il discorso è più complesso, anche perché non è affatto vero che ciascuno di noi conosce pienamente se stesso, ma in estrema sintesi possiamo dire che al termine di questo piccolo esperimento di autoanalisi le cose sono andate così: la colonna sinistra del foglio l’abbiamo riempita parlando di noi. Quella destra… pure! Solo che lo abbiamo fatto «per interposta persona». Nella seconda colonna, infatti, non abbiamo davvero parlato di un’altra persona, ma ci siamo limitati a descriverla in base al rapporto che lei ha con noi.
Per esempio, se parlando di sé un uomo può dirsi ambizioso, introspettivo e determinato, parlando della sua compagna è facile che si limiti a definirla affettuosa, ritardataria, umorale: tutti aggettivi che dicono ben poco della personalità di questa donna, perché si concentrano soltanto sul modo che lei ha di relazionarsi a lui. Siamo così accecati dalla nostra individualità che, anche quando parliamo di
qualcun altro, finiamo per metterci in mezzo. Un po’ come quei pittori che infilano sempre una parte del loro aspetto in tutti i ritratti che eseguono, indipendentemente dal soggetto raffigurato.
Non riusciamo a «metterci in disparte», a uscire dall’inquadratura e a cedere il palco a qualcun altro. Vogliamo sempre essere il fiore e mai la mano che lo cura e coltiva, il figlio coccolato e mai il genitore che lo mette al centro di ogni attenzione.