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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2013
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Che librino inutile e supponente, questo di Enzo Bianchi, assiduo e loquacissimo frequentatore di quotidiani, riviste, festival culturali, radio e tv. Disposto tranquillamente a soprassedere alla regola monacale del silenzio, qui invita a sfuggire la tristezza, in cinque blandi paragrafetti corroborati da alcune massime dei Padri della Chiesa. Per S. Paolo c'è una tristezza secondo Dio (buona) e una secondo il mondo (cattiva), e Bianchi afferma che se la prima è una riflessione compunta che può ricondurre al bene, l'altra è un vizio, “uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce”. Il nostro peccato di creature sfiduciate e pessimiste risiede in un rapporto sbagliato con il tempo, con un passato che idealizziamo e un futuro che mitizziamo, trascurando di aderire alla realtà del presente, da accogliere invece con gioia e gratitudine, perché “solo l'oggi di Dio” può determinarci. In cosa consiste la tristezza, secondo Bianchi? In pratica va limitata a due sentimenti, molto simili e diffusi anche tra i religiosi: l'invidia e la gelosia. “L'invidioso è colui che si sente escluso da un bene che l'altro che gli è accanto possiede: il bene dell'altro è sofferto come male proprio!” Terribile patologia, che nasce dal confronto perdente con il prossimo, a cui ci si sente inferiori intellettualmente, economicamente, fisicamente o caratterialmente. Questo non essere contenti di sé e della propria situazione porta alla sofferenza, alla tristezza. Come uscirne, come abbattere questo “verme del cuore”? Da uomo di Chiesa, il Priore di Bose suggerisce l'unica soluzione dell'apertura a Dio e alla sua Parola, del confronto fraterno col prossimo, della preghiera. Ma nel Vangelo non troviamo mai un Gesù che sorride, e invece lo leggiamo spesso sofferente, irato, rimproverante: allo stesso modo, l'espressione facciale, la gestualità e il tono di voce di Enzo Bianchi non appaiono a noi spettatori particolarmente benevole, rincuoranti, rasserenanti con monacale “letizia”...
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