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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2016
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
«Ho bisogno di una donna, ma non di una puttanella. Ho bisogno del dopo, di quello che una puttana non può mai darti. Quando arrivo nella hall piena di donne grasse e vecchi, penso che questa è l'unica cosa che ho. Forse ho preso questa stanza per sempre; potrei anche non aver bisogno di andare da un'altra parte dopo stanotte.» Alcuni racconti da stordimento (Una stanza per sempre), alcuni 'solo' orientativi o da meditazione. Certo è che Pancake è tutt'altro che soffice e dolce; stile beat duro, trasuda disagi e sofferenze a livelli variabili, che però non riescono a inibire il piacere del lettore/spettatore che vi assiste, raccogliendo e accogliendo, medicate con l'indifferenza, le ferite del deragliamento umano, vestito di ottima letteratura da una stellina appena nata e subito spenta, la cui luce fosca viaggia ancora nello spazio e nel tempo.
In questo libro (purtroppo l’unico disponibile di questo grande autore) si può notare la psicologia dello scrittore, che con il suo stile pacato ma coinvolgente porta il lettore al suo stesso livello, facendogli provare quello che lui stesso prova. Non può certo considerarsi una “lettura leggera”. Le pagine sono piene di domande implicite che inevitabilmente il lettore è portato a porsi. Per il resto un libro che mi ha piacevolmente colpito. L’avevo acquistato per pura curiosità ma, dopo averlo letto, alla curiosità si è unita compassione ed ammirazione per uno scrittore che purtroppo ci ha lasciato in eredità solo questi racconti a dir poco eccezionali e profondi.
Nato a South Charleston, nel West Virginia, Breece D’J Pancake spesso ambientava i suoi racconti proprio in queste terre. Con una scrittura scarna, asciutta, minima ed essenziale, ma capace di produrre immagini e sensazioni vivide, in questi racconti emerge la natura spesso aspra ed isolata, gli animali viventi ed i fossili del passato, la desolazione e lo splendore dei paesaggi, il tempo atteso e quello che sembra essersi fermato per sempre, il desiderio di fuggire anche se alla fine si rimane allo stesso posto, scene di vite perdenti e fragili, quelle stesse vite dai cui spesso rimane impressa addosso al lettore un vago senso di solitudine. Una solitudine che permea i pensieri ed i gesti dei protagonisti dei racconti, che affiora nelle descrizioni delle terre immense e desolate, che pervade le pagine del libro. Aveva ventisei anni Breece D'J Pancake quando si uccise in un giorno di aprile del 1979. Soltanto qualche anno dopo la sua morte, per la precisione nel 1983, i suoi racconti furono pubblicati in una raccolta postuma. Editi per la prima volta in Italia dalla casa editrice Isbn nel 2005, i dodici racconti sono stati nel 2016 ristampati dalla Minimum Faxon la nuova traduzione di Cristiana Mennella. Un'occasione per leggere i racconti di un'autore che, osannato oltreoceano - citato da Tom Waits come suo autore preferito, ed il cui debutto è stato paragonato per talento da Joyce Carol Oates ad Hemingway -, nel corso degli anni è diventato uno scrittore di culto.
Recensioni
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Il culto che circonda la figura di Breece D’J Pancake è rubricabile sotto l’etichetta del “mito della gioventù”, soprattutto se spezzata o bruciata.
Più Kurt Cobain che James Dean, più Phil Occhs (suicida anch’egli, amatissimo dallo scrittore) che Jeff Buckley Pancake si uccise a 27 anni e da allora la sua vicenda biografica in qualche modo ha oscurato quella letteraria.
Ora minimum fax ripubblica i suoi racconti. Storie straordinariamente emotive, con apici d’intensità pari soltanto alla finezza psicologica d’intrappolare personaggi con medie aspirazioni in trappole auto-censuranti. Sono personaggi che vivono nella speranza di poter fuggire dalla provincia depressa del West Virginia ma si legano a vincoli morali chiaramente sorpassabili. This land is your land, ma è una terra di morti. C’è un’ossessione fossile in queste pagine; un’attenzione esasperata per i propri morti, per le mummie, per il nero d’antracite che inchiostra i visi di poveri disgraziati in cerca di pochi dollari e redenzione e varie altre mense per i demoni: ad esempio il melodramma americano del Sud, alla Tennessee Williams, con legami ambigui tra familiari e storie di fratelli che dovrebbero restare sepolte.
Tuttavia l’aspirazione alla rinascita è pari alla violenza degli Appalachi, luogo che fa da sfondo anche al celeberrimo Un tranquillo weekend di paura (siamo nello stesso torno di tempo).Eppure questi racconti non significano altro che questo. Non c’è altro oltre a questa cappa di vita, insopportabile, appena rischiarata da una laica grazia, miserabile o disperatamente vitale; storie intense, di profonda vicinanza all’umano, ma “superficiali” e non certo per mancanza di acume psicologico, ma anzi, proprio “per colpa” dell’acume psicologico, che è ancora il fatale psicologismo. Pancake cerca la voce dei suoi fantasmi nelle frequenze vocali che conosce già.
L’alterità, come nelle terre del West Virginia, non esiste o è rifiutata; estrema mimesi della narrazione con il luogo narrato, che è artificio retorico apprezzabilissimo, ma purtroppo limitante. Varchi, soglie, intervalli e interruzioni non esistono. Il destino fila dritto come le autostrade che appaiono in lontananza. Insomma, Trilobiti non è certo un libro fallito. Molti dei racconti presenti – L’attaccabrighe su tutti, Una stanza per sempre, Cacciatori di volpi o la title-track – sono memorabili. Ma la loro bellezza è immanente, invita a una chiusura anziché il contrario.
Recensione di Filippo Polenchi
Trilobiti, pubblicato da minimum fax (la prima edizione italiana del 2005, firmata ISBN, è da tempo fuori commercio), è tutto ciò che possiamo leggere di Breece D’J Pancake. Lo scrittore del West Virginia (quell’insolito «D’J» è frutto di un refuso di stampa subito accolto e difeso dall’autore: una divertita concessione al caso da parte di chi ha fatto di un estenuante labor limæ il suo marchio di fabbrica) si è tolto la vita a neppure ventisette anni, dopo aver accumulato nel breve volgere di poco più di due decenni esperienze tali da assicurargli una maturità non comune. Dalla morte del padre a quella del suo migliore amico, dal ruolo di docente in una scuola militare alla promettente carriera letteraria. «Era lui a doversi prendere cura di me», dichiarò John Casey, professore universitario, firmando una prefazione ora riproposta nel volume in esame.
Sono dodici racconti, originariamente dati alle stampe nel 1983, che sanno di polvere e luce accecante, di alcoliche notti insonni e di strade infinite, di un indefinito senso di stasi opprimente che rischia di indurre a un disincantato fatalismo. A volte sembra che la vita, quella vera, possa goderla chi fa il grande passo, chi chiude con la provincia rurale e si getta nel mondo: «Chicago diventò un sogno e poi una specie di malattia». E ancora: «La vita vera era a Chicago» (La mia salvezza).
Il protagonista di Trilobiti, uno dei racconti più intensi del libro, smentisce indirettamente il ragazzo che sogna Chicago e confessa: «Sono nato in questo posto e non ho mai smaniato per andarmene». Parole di cui difficilmente avrebbe potuto appropriarsi la molta letteratura americana che ha identificato nel viaggio, più o meno metaforicamente inteso, il suo fondamento primo (è superfluo citare On the road, capolavoro di Kerouac).
Racconti inquieti e perfettamente cesellati, dunque, ossessivamente ponderati. John Michaud, in un articolo pubblicato sul «New Yorker», ha affermato che «alla stesura di una storia [Pancake] dedicava quattro versioni scritte a mano e una decina a macchina, piene di correzioni, aggiunte, appunti».
Le storie di Trilobiti nascono e crescono nel segno della ruggine. Il tempo, che alla ruggine è naturalmente legato, è forse il vero protagonista di queste pagine. La malinconica e dimessamente orgogliosa consapevolezza della nostra precarietà percorre la prosa dell’autore («Mi piace tenere in mano sassolini che hanno vissuto tanto tempo fa»: ecco la soddisfazione di sentirsi tappa finale di un passato che tende a infinito). Pancake vede in se stesso e nel mondo che gli scorre così chiassosamente accanto niente più che un frammento infinitesimale ma non insignificante di un tutto sconfinato. Un anello di giunzione tra un passato carico di migliaia, milioni, miliardi di anni e un futuro che l’eterno presente sembra schiacciare in un angolo e che tuttavia si realizzerà, nonostante tutto. I ricordi sono, spesso, tutt’altro che consolatori e rasserenanti. Prendono alla gola, sono i morsi gelidi e implacabili del tempo che scorre impietoso. Al di fuori della temporalità soggettiva dell’umanità – trascurabile in termini assoluti – Pancake sembra poter davvero respirare. In mezzo alla natura, presenza di fondamentale importanza nella sua opera, sembra riscoprire la sincera preghiera, e manifestazione al contempo, di un dio silenzioso che viene nominato, in tutto il testo, una volta soltanto. Un dio terrestre, terrigno, immanente, nonostante nei suoi ultimi anni di vita lo scrittore avesse aderito con ostentata convinzione alla religione cattolica.
Leggere questo libro è un po’ come ascoltare Woody Guthrie. Certo, tra lo scrittore della Virginia occidentale e il menestrello dell’Oklahoma la distanza è evidente (così come sono evidenti alcune affinità relativamente alle ambientazioni e agli «ultimi» resi protagonisti). Lo storico cantore dell’America del dopoguerra illuminava con le sue protest songs l’altra faccia del sogno americano (siamo, in letteratura, dalle parti di Furore), e aveva addosso l’ardire di una speranza collettiva, sociale. La musica, però, non è così distante da quella di Pancake: secca ed essenziale, ma capace di aprirsi in melodie struggenti e delicate.
Recensione di Marco Giorgerini.
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