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Felice esito di una serie di lezioni tenute a Vienna nel 1995 questo svelto e denso libretto si propone di rispondere a tre interrogativi relativi alla rivoluzione russa qui definita l'evento più importante del ventesimo secolo. L'autore è Richard Pipes noto in Italia soprattutto per la trilogia costituita da La Russia (Leonardo 1992) La rivoluzione russa 1899-1919 (Mondadori 1995) e Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin (Mondadori 1999; cfr. L'Indice 2000 n. 1). Non tradotto resta invece il suo capolavoro Struve. Liberal on the Left (1970).
Ed ecco le questioni – the three whys – che sono in gioco. Perché cadde il regime zarista? Perché trionfarono i bolscevichi? Perché Stalin succedette a Lenin? Questioni certo grosse. L'impresa pur affrontata in meno di cento paginette non è però troppo ambiziosa. L'autorevolezza e la competenza di Pipes sono infatti fuori discussione. Di famiglia ebraica benestante nato in Polonia (a Cieszyn) nel 1923 emigrato nell'ottobre 1939 con i suoi per sfuggire all'occupazione nazista arrivato negli Stati Uniti nel luglio 1940 dopo un breve soggiorno nell'Italia fascista cittadino americano dal 1943 insegnante a Harvard dal 1950 al 1996 (dove ora è professore emerito) grande esperto di questioni polacche tedesche e poi a partire da The Formation of the Soviet Union. Communism and Nationalism 1917-1923 (1954) soprattutto russe e sovietiche Richard Edgar Pipes politicamente old conservative e pragmatico cold warrior anticomunista negli anni dell'equilibrio bipolare e della pax armata sovietico-americana oltre a essere stato considerato a lungo il massimo conoscitore americano di storia della Russia e dell'Urss (ritenuta quest'ultima uno stato totalitario e per natura espansionistico-conquistatore) ha anche ricoperto incarichi politici ed è stato negli anni ottanta in merito naturalmente agli affari est-europei e sovietici consigliere del presidente Reagan.
Il presente volumetto è del resto con qualche arricchimento archivistico una sintesi degli studi sempre militanti di Pipes sul Vanished Specter (titolo di un testo di Pipes del 1994 sul comunismo). Né manca l'obiettivo polemico. Che è poi la storiografia dei cosiddetti revisionisti termine che negli Stati Uniti – paese che vai proliferazione semantica che trovi – vuol dire filo-sovietici o giù di lì. Il che conferma che onde non favorire babeliche confusioni e abusi autoapologetici o ingiurianti sarebbe ormai davvero una cosa buona e giusta fare a meno nel lessico storiografico del termine revisionismo. Esagerando a ogni buon conto vistosamente e con la mente forse rivolta ai lontani e impertinenti anni sessanta Pipes ritiene predominante soprattutto nelle università (e non solo in quelle americane ma anche in quelle tedesche) la storiografia revisionistica. La quale sottolineerebbe la centralità delle deterministiche e oggettive forze sociali laddove Pipes enfatizza il primato della soggettività politica. Per i revisionisti american style influenzati secondo Pipes dal materialismo storico da vari teoremi sociologistici di ascendenza liberal e dalla scuola delle Annales gli eventi installati in mai ben chiari processi sono guidati da forze anonime e irrefrenabili.
Per Pipes invece il fattore decisivo è la volontà umana. Non può non essere ricordata sul piano metodologico e concettuale la ben nota bipartizione degli storici tedeschi a proposito del nazionalsocialismo. Da una parte vi sono gli intenzionalisti (tra questi Joachim Fest) che interpretano il Reich nazista come il prodotto sic et simpliciter dell'azione e dell'ideologia del führer e dei suoi accoliti. Dall'altra vi sono i funzionalisti che interpretano il nazismo come il risultato di un dinamico e sempre cangiante equilibrio poliarchico tra forze tra loro divergenti o anche in conflitto ma l'una funzionale all'altra (il partito e il suo capo la Wehrmacht il potere economico la pubblica amministrazione). Pipes sembrerebbe se si sposta lo sguardo dal Terzo Reich all'Urss (generata per lui dal solo slancio volontaristico di Lenin e dei bolscevichi) un intenzionalista intransigente. Eppure non sempre il quadro disegnato è congruente con il programma. Le contraddizioni sono visibili. E lo storico in rebus ipsis si sottrae al dettato ideologico e progettuale cui pure si proclama fedele.
Veniamo ora agli interrogativi. Il primo ha dunque a che fare con la caduta dello zarismo. Non avvenuta per cause endogene secondo Pipes per il quale fu sostanzialmente Lenin la causa del crollo. E ancor più lo fu il lavorio erosivo negli anni dell'intelligencija radicale. E qui viene riproposta credo inconsapevolmente l'interpretazione cospirazionistica della Rivoluzione francese effettuata da Barruel da Bonald e da Maistre. Pipes al fine di mettere in discussione la lotta di classe come motore della storia minimizza poi l'impatto degli scioperi industriali d'inizio Novecento ricordando l'esiguità della componente operaia all'interno della Russia zarista. Ma afferma anche che all'epoca la situazione nelle campagne era tranquilla. Il che anche sulla base di varie ricerche effettuate dopo l'apertura degli archivi ex sovietici (della quale Pipes nel 1995 si era già avvalso) lascia francamente sconcertati. Subito dopo però Pipes scende sul terreno politico-istituzionale. Il suo terreno. E non può non rilevare rammentando l'assenza storica del feudalesimo e citando Marx la debolezza intrinseca dello stato zarista un organismo autocratico impostosi dall'alto. Fa anche raffronti per le forme del potere e per l'invasività della burocrazia tra Russia e Urss e addirittura tra Urss e Russia postcomunista. Suggerendo continuità di lungo periodo. Lo stesso 1991 di El'cin ha del resto molto in comune per lui con il 1917 di Lenin. Pipes discorre poi di eccesso di popolazione (rispetto alle risorse disponibili). E di situazione esplosiva alla vigilia di guerra e rivoluzione. Dove? Evidentemente nelle tranquille campagne. La grande guerra è poi trattata in modo assai rapido. Ma si sostiene che essa rese impossibile in Russia l'unità nazionale. Una cosa non da poco. Pipes non teme infine di affidarsi alla if history. La Russia zarista avrebbe infatti potuto forse sopravvivere se avesse fatto nel 1916 una pace separata con gli austrotedeschi Come i bolscevichi nel 1918 a Brest-Litovsk! Si può concludere che per Pipes la Russia zarista non morì forse di morte naturale ma era certo in agonia quando le rivoluzioni russe rivali tra di loro (quella occidentalistica del governo provvisorio quella dei soviet e soprattutto l'immensa rivoluzione contadina) dilagarono.
Perché poi trionfarono i bolscevichi? Perché erano la minoranza meglio organizzata risponde Pipes. Perché nessuno li contrastò. Per l'aiuto elargito dal kaiser a Lenin. Per gli errori di Kerenskij che inventò onde compiacere i soviet l'inesistente putsch di Kornilov. Per la febbricitante volontà dello stesso Lenin. Per la subalternità dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. A Pietrogrado presero del resto parte agli eventi dell'ottobre la testimonianza è di Trockij non più di trentamila persone. Notazione ineccepibile. Così come è ineccepibile la definizione tecnica di colpo di stato per la rivoluzione d'ottobre. Ma c'era ancora uno stato nell'ottobre? O non venne esso ricostruito dispoticamente dai bolscevichi che demolirono progressivamente la rivoluzione liberale (il febbraio) la operaia (i soviet) e nel tempo lungo anche la contadina (la conquista della terra) rivoluzioni possibili proprio perché lo stato zarista era in agonia? I bolscevichi si avvalsero insomma salvo poi affossarle delle rivoluzioni altrui. Il che attenua assai l'immagine fornita da Pipes di un titanico Lenin forgiatore ex nihilo di imperi. Un'immagine morfologicamente eguale e assiologicamente opposta a quella della scolastica bolscevica.
Stalin invece fu l'inevitabile effetto della politica di Lenin. Revisionando le proprie premesse è ora Pipes a imboccare la strada del determinismo. Numerose cose importanti egli scrive tuttavia a questo punto sulla guerra con la Polonia. Sui rapporti russo-tedeschi. Sulla vera guerra civile che comincia quando i bianchi sono sbaragliati. Né manca un'onesta delucidazione delle evidenti discontinuità che pur sussistono tra l'età di Lenin e l'età di Stalin. E Pipes pare debitore nei confronti delle analisi di Trockij sulla burocrazia e sulla mancata (e per Pipes ovviamente impossibile) rivoluzione europea. Ci sono insomma più cose nel cielo e nella terra della storia – intreccio processuale complesso e non mera somma aritmetica di eventi creati dall'intenzionalità di pochi – che nell'umana filosofia degli aprioristici programmi storiografici.
Bruno Bongiovanni
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