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Trattato di psicoanalisi. Vol. 1: Teoria e tecnica - copertina
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Trattato di psicoanalisi. Vol. 1: Teoria e tecnica - copertina

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2
1997
1 settembre 1997
950 p.
9788870784664

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giorgiog
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Molto disordinato. Un disordine che non si addice ad un trattato. Si tratta di un insieme di capitoli che sembrano articoli della rivista italiana di psicoanalisi, solo più lunghi. Non si trova qui una trattazione sistematica della psicoanalisi, ma una trattazione psicoanalitica della psicoanalisi. Lo dice lo stesso Semi nell'introduzione. E infatti questo stile è proprio quello di Semi: uno stile che è brillante, ma che non si addice ad un trattato. Questo stile è molto presente nella psicoanalisi italiana, questo lasciarsi andare alle libere associazioni, all'attenzione fluttuante, anche al di fuori del setting analitico, e precisamente sulla scrivania mentre si scrivono libri.

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(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Mancia, M., L'Indice 1989, n. 3

La comparsa di un "Trattato di Psicoanalisi" a più mani, e tutte italiane, è un avvenimento degno di grande attenzione perché dà anche una misura della maturità teorica e clinica che ha raggiunto il gruppo di psicoanalisti che opera sotto la severa e prestigiosa sigla della SPI (Società Psicoanalitica Italiana) affiliata alla Associazione Psicoanalitica Internazionale (IPA). Detto questo, non si può non aggiungere - dopo una attenta lettura delle circa 900 pagine del trattato - che forse ognuno di noi avrebbe proposto un progetto di trattato diverso, come è implicito in quanto lo stesso A.A. Semi, curatore del volume, scrive: "la caratteristica di questo "Trattato" è l'essere fortemente personalizzato e, in un certo senso, insostituibile". Un trattato dunque di psicoanalisi e non sulla psicoanalisi "che dimostri nel suo proprio stile il modo di pensare che è caratteristico degli psicoanalisti". A giustificazione di questa scelta progettuale c'è la considerazione - per il vero condivisibile - che la psicoanalisi sia diventata una specie di torre di Babele dove si rischia di non capire più nulla "vuoi per la ricchezza di dati, materiali e modelli offerti, vuoi per la diversa valenza che da persone diverse viene data agli stessi termini". Ne è testimone anche il tema affrontato da Wallerstein, attuale presidente dell'IPA, all'ultimo congresso internazionale di Montreal: una psicoanalisi o più psicoanalisi? Lo stesso Semi parla, nella sua introduzione, del fatto che la difficoltà comunicativa degli analisti relativamente al loro modo di lavorare, pensare e teorizzare è aumentata con l'aumentare del numero di coloro che si interessano attivamente a questo affascinante quanto complesso lavoro. Comunque, il volere raccontare il modo di pensare caratteristico di ciascun psicoanalista, ha suggerito di progettare un trattato/storia che, almeno nella parte dedicata alla teoria, dà una precisa idea di che cosa è stato ed è il pensiero delle varie scuole e degli autori che si sono avvicinati al padre fondatore e se ne sono poi distaccati, continuando con il proprio aratro - per rimanere nella metafora contadina cara a Semi - a tracciare il difficile percorso di questa difficile disciplina.
Ma veniamo al testi. Una loro possibile lettura sta nell'uso del particolare concetto di modello dell'apparato psichico che in essi viene proposto; la cui caratteristica di globalità "è sempre stata discriminante rispetto ad altri approcci scientifici o culturali alla vita psichica dell'uomo". Tuttavia già Enzo Funari nel primo capitolo dedicato alla "Contestualità e specificità della psicoanalisi" ci mette in guardia sulla estrema difficoltà, se non sull'impossibilità, di tracciare una teoria unitaria ed esaustiva della psicoanalisi e sulla necessità, per ogni modello che voglia essere definito scientifico, di far fronte alla impossibilità di fornire una struttura definitiva della propria intelaiatura formale e del proprio impianto.
Fatte queste premesse, Funari affronta il tema della nascita della psicoanalisi nel contesto scientifico e filosofico dell'Europa di fine Ottocento, inquadrandola in quella "crisi della ragione" che si rifletteva nel depotenziamento dell'assetto teorico volto alla conoscenza dei fenomeni naturali, ma, nello stesso tempo, proponendola come parte della scienza che non ha bisogno di una 'Weltanschauung' particolare - lo scrive Freud nel 1932 - in quanto può aderire ad una 'Weltanschauung' scientifica. Funari sottolinea la inaffrontabilità dell'inconscio prima di Freud e l'opera di Leibniz ma riconosce che, paradossalmente, a dare una mano a Freud nel definire il concetto di inconscio, contribuiscono proprio gli psicofisiologi dell'epoca, in particolare Fechner e Helmholtz che scrive nel 1866: "Le attività psichiche, tramite cui noi ci formiamo l'idea che un certo oggetto, con certe caratteristiche, esiste fuori di noi, in un certo posto, non sono generalmente attività coscienti, bensì "inconsce" (sottolineatura mia)". Da Brentano invece Freud apprende il principio che nessuna esperienza psichica è possibile senza l'atto di rappresentare. Freud ha la geniale intuizione di saldare la rappresentazione all'inconscio estendendo il carattere di intenzionalità di Brentano alla sfera inconscia. La lezione kantiana fa il resto proponendo il modo di rappresentare come l'unico in cui è possibile il farsi dell'esperienza, che si riferisce però a qualche cosa (la cosa in sé) la cui natura ultima non ci è dato conoscere. La psicoanalisi dunque, pur nascendo dall'esperienza terapeutica, rivela geneticamente la sua sostanza antropologica ponendosi come procedimento conoscitivo delle modalità complesse in cui si esprime la vita psichica.
Questa sottile e invasiva operazione epistemologica ha le sue radici in un modello freudiano di funzionamento psichico di cui ci parla Fausto Petrella nel suo testo. Emerge in tutta la sua importanza e complessità il processo di stratificazione di ipotesi nuove e concetti aggiuntivi nell'opera di Freud. Persino la teoria traumatica della nevrosi - apparentemente abbandonata nel lontano 1897 - non è mai stata completamente trascurata nei suoi scritti. Petrella passa in rassegna i concetti-base su cui si fonda il metodo analitico: libere associazioni, regola fondamentale, funzioni psichiche primarie e secondarie, ritrovandone giustamente le radici nel "Progetto per una psicologia scientifica" del 1895. È nel "Progetto", in germe, il modello che costituirà la "Metapsicologia" freudiana (sviluppata nei lavori successivi), i cui punti di vista - dinamico, topico ed economico - costituiranno l'espressione di tre fondamentali direttrici metaforiche che sono alla base del funzionamento psichico dell'uomo. Il punto di vista dinamico considera i fenomeni psichici come risultato di conflitti tra forze contrastanti (le pulsioni sono proposte come concetti-limite collegati al mondo delle rappresentazioni); il punto di vista topico ipotizza la scomposizione dell'apparato psichico in sistemi funzionalmente differenziati (coscienza, preconscio, inconscio - nella prima topica del 1915; Es, Io, Super-Io - nella seconda topica del 1923), il punto di vista economico appare come un complemento inscindibile della prospettiva dinamica, ove le pulsioni sottese alla vita psichica sono processi energetici radicati nella biologia.
Con il testo di Glauco Carloni entriamo decisamente in una affascinante dimensione storica: Sàndor Ferenczi e la scuola ungherese di psicoanalisi. A Carloni va il merito d'aver saputo riproporre ai colleghi italiani già da vari anni, il contributo di Ferenczi allo sviluppo della psicoanalisi e allo sviluppo dello stesso pensiero di Freud. Carloni inquadra Ferenczi nel contesto politico ungherese degli inizi del '900 e si collega alle sue opere maggiori e al suo "Diario" clinico (di recente uscito a cura dello stesso Carloni per Raffaello Cortina) per presentare i contributi più significativi di questo originale allievo di Freud: dalla elaborazione del concetto di Introiezione all'analisi dello sviluppo sessuale, dalle esperienze di terapia attiva che segnerà l'inizio di un mutamento nella relazione con Freud, al tentativo di analisi cosmica che compare in "Thalassa", dall'uso terapeutico del controtransfert e dell'empatia alla famosa confusione delle lingue tra adulti e bambini del 1933, anno della sua morte che segnerà la rottura con Freud. A Freud egli non aveva mai perdonato una disattenzione analitica al suo transfert negativo, e contro di lui dirigerà il suo delirio prima di morire. A Ferenczi Carloni fa risalire, giustamente, l'istituzionalizzazione, della analisi didattica, la estensione del giudizio di analizzabilità ai bambini e agli psicotici oltre che ai gruppi e ai primitivi.
Di questa ultima possibilità analitica si gioverà un allievo di Ferenczi, Géza Roheim, che coniugherà la psicoanalisi con la ricerca antropologica attraverso lo studio, con rigorosi strumenti analitici, della cultura aborigena australiana, pervenendo ad alcune conclusioni di straordinaria portata antropologica: la sostanziale unità psichica del genere umano e la immutabilità della psicologia del suo mondo interno nel corso della storia: la convalida delle supposizioni freudiane sulla esogamia come derivazione dal tabù dell'incesto; l'identificazione dei riti iniziatici come riti di passaggio dalla dipendenza materna alla cultura dei padri: il riconoscimento di una invidia maschile rimossa per la donna; la formulazione di una teoria ontogenetica della cultura per la quale le differenze culturali, politiche e religiose sono il risultato di esperienze infantili che, rimaste nell'adulto, sono responsabili di quelle specifiche scelte culturali e istituzionali.
Tra gli allievi di Freud spicca per la sua originalità ma anche per il suo carattere e personalità Karl Abraham. Gilda De Simone Gaburri e Bianca Fornari ce ne danno una descrizione viva e accattivante, dalla clinica psichiatrica di Zurigo il famoso Burgholzli diretto da Eugen Bleuler, all'incontro con Freud a Vienna nel 1907, alla fondazione a Berlino nel 1910 della Società Psicoanalitica e del Policlinico psicoanalitico. Abraham era riuscito ad attrarre a Berlino tutte le personalità più interessanti della cultura psicoanalitica dell'epoca, tra cui M. Klein, S. Rado, F. Alexander, i Glover, T. Reik, K. Horney, H. Deutsch. Suo l'interesse per i problemi genetici riguardanti gli stadi pregenitali dello sviluppo libidico e lo studio della fase orale dello sviluppo e la sua stretta connessione con la depressione: sua l'idea di ricercare nella relazione madre-bambino le radici di una patologia dell'adulto che da una parte lo porterà a formulare il concetto di depressione primaria, quale base per capire la psicosi maniaco-depressiva e dall'altro aprirà la strada alla Klein e al suo concetto di posizione depressiva.
La mancanza di spazio mi impedisce di approfondire i contributi di questo originalissimo pensatore. Mi basterà fare un breve accenno al suo concetto di incorporazione parziale, stadio transitorio tra narcisismo e amore oggettuale, e al suo spostare l'accento, quanto all'invidia femminile, dal pene del padre, alla madre, a causa dei bambini che possiede. Quest'ultima operazione sarà basilare per il dibattito sulla sessualità femminile che si svilupperà negli anni successivi tra K. Horney, H. Deutsch e M. Klein. La Klein ha elaborato profondamente i concetti innovativi di K. Abraham e li ha portati alle estreme conseguenze, riconoscendo il ruolo di questo suo maestro nel legare le proprie idee a quelle di Freud e nel rendere possibile la introduzione in psicoanalisi di un nuovo paradigma.
Al lavoro di Melanie Klein e alla sua scuola gli stessi autori (Gilda De Simone Gaburri e Bianca Fornari) dedicano un capitolo dettagliato ed esaustivo. Vengono subito definiti i percorsi che distanziano la Klein da Freud. Innanzitutto la tecnica del gioco che la Klein ha sviluppato a Berlino nel 1921 seguendo le idee di Abraham (con cui fu in analisi dal 1924 al dicembre 1925, anno della sua morte) e che costituirà un suo punto di riferimento per approfondire le analisi infantili che negli anni '30 la porteranno a formulare il concetto di "Posizione". In quegli stessi anni la Klein rivisiterà, in "Psicoanalisi dei bambini", il concetto di transfert e sarà in grado, sia nella interpretazione dei sogni che delle fantasie inconscie, di offrire ai suoi pazienti, adulti e bambini, interpretazioni dirette che metteranno in primo piano la sua persona di analista e daranno rilievo agli affetti in gioco nella seduta rispetto alla sola ricostruzione di eventi del passato. In quegli anni (1928) anticiperà nello sviluppo il complesso di Edipo e successivamente metterà in evidenza i meccanismi della scissione e della proiezione. In continuità con Freud formulerà e porterà alle estreme conseguenze la teoria duale degli istinti, dando estremo rilievo all'istinto di morte di cui l'invidia sarà eletta a rappresentazione mentale.
Tra libido e distruttività esiste un legame dialettico e indissolubile, ma sarà la pulsione di morte ad essere responsabile di quell'angoscia primaria di annientamento che si sostituirà, nella sua teoria, all'angoscia di castrazione. Nel 1935 la Klein proporrà definitivamente il concetto di posizione: la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva diventeranno i poli tra i quali si giocherà lo sviluppo affettivo e cognitivo del bambino, punti cardinali di riferimento delle modalità transferali presenti nell'adulto in analisi. La elaborazione di questi concetti porterà la Klein, sulla base delle sue osservazioni cliniche, a formulare nel 1946 il concetto di identificazione proiettiva, che segnerà la tappa più geniale e significativa del suo percorso clinico e teorico. Di fatto questo concetto è il patrimonio più significativo che la Klein ha voluto lasciarci in eredità, strumento prezioso e indispensabile per riconoscere nell'analisi aspetti del transfert non verbalizzabili che spesso si collegano a emozioni inconscie arcaiche e profonde.
Quello che meraviglia è leggere che la Klein, nonostante la grande intuizione che l'aveva portata a formulare il concetto di identificazione proiettiva che indirettamente poneva l'analista, in quanto oggetto di questa modalità, in primo piano nella relazione di coppia, non era riuscita a fare il naturale passo successivo, che era quello di considerare il controtransfert come lo strumento più idoneo e sensibile per capire il transfert del paziente. Sarà Paola Heimann, nel 1950, a formulare nuovi concetti relativi al controtransfert che però troveranno la rigida opposizione della Klein, la quale non amava essere contraddetta essendo, a detta di E. Jones, di "una intransigenza eccezionale e temeraria".
Possiamo onestamente considerare la Klein come la iniziatrice di un nuovo modo di concepire la mente, la introduttrice indiscussa di un nuovo paradigma psicoanalitico. Ne sono testimoni gli sviluppi internazionali che ha avuto il suo pensiero fino all'avvento di W. Bion, di cui si occupa il testo di Eugenio Gaburri e Antonino Ferro. Questi autori discutono molto estesamente i contributi dei kleiniani dell'ultima generazione (S. Isaacs, P. Heimann, J. Rivière, H. Segal, H. Rosenfeld, E. Rodrigue, R. Money-Kyrle, W. Bion, E. Jacques), per non citare che i nomi più significativi. Oltre ad applicare all'analisi degli adulti i concetti kleiniani classici, questi autori hanno esteso i criteri di analizzabilità includendovi, oltre ai bambini (psicotici e autistici), gli adulti psicotici, "borderline" e personalità narcisistiche. Parallelamente hanno sviluppato le applicazioni extracliniche delle concetualizzazioni kleiniane portandole nel campo dell'estetica (El. Segal, A Stokes, D. Meltzer) dei gruppi (W. Bion) della società (E. Jacques). Clinicamente verrà definito e allargato il concetto di scissione e identificazione proiettiva: verrà studiata da E. Bick un nuova modalità di identificazione narcisistica: la identificazione adesiva, e verrà dato grande rilievo, da parte di H. Rosenfeld, alla organizzazione narcisistica della personalità che opera in un contrasto dinamico con le parti libidiche per la supremazia nelle relazioni d'oggetto.
La simbolizzazione, che tanta parte ha avuto nella concettualizzazione kleiniana, verrà dai suoi seguaci considerata l'esito relazionale di un processo a due, come un contenitore che permette al pensiero di svilupparsi. L'incontro analitico sarà visto come un laboratorio in cui è resa possibile la trasformazione delle emozioni che l'esperienza della relazione fa germinare. Il transfert e il controtransfert diventeranno il tessuto affettivo dell'"ic et nunc" all'interno del quale le esperienze dell'incontro acquisiranno un significato specifico, poli di un percorso totalizzante che vedrà impegnato l'analista non meno del suo analizzando.
Su questa linea rivoluzionaria si sviluppa il pensiero di W. Bion, certo uno degli analisti più creativi e geniali della generazione appena scomparsa. Del pensiero di W. Bion, Eugenio Gaburri traccia un profilo ricco e complesso in cui l'opera si intreccia con le vicende della vita: dall'inizio del suo interesse per i gruppi alle grandi teorizzazioni degli ultimi anni, in un percorso mirabile per coerenza e intuitività che comprende concetti nuovi come quello di funzione Alfa (funzione della mente che le permette di dare un significato alle emozioni che, come elementi Beta, si sviluppano in un campo relazionale), elementi Beta (dato sensoriale che proviene dalle emozioni), contenitore/contenuto (quale modello base delle relazioni), oscillazione PS = posizione schizoparanoide D = posizione depressiva (come gioco reciproco di stati affettivi che tanta parte avrà nella relazione analitica), trasformazione (concetto che Bion sostituisce a quello di rappresentazione), funzione K (come funzione conoscitiva). La pulsione di morte è attiva nella sua concettualizzazione, e diretta non più o non solo all'oggetto come voleva la Klein, ma alla relazione (attacco al legame). La identificazione proiettiva non è più vista come un evento patologico ma come esperienza normale nello sviluppo che permette al bambino di conoscere il mondo attraverso la sua relazione con la madre. Il dolore mentale che compare in analisi diventa una esperienza necessaria che permette di sviluppare la capacità di pensare. L''insight' dell'analista è il 'primum movens' della relazione che lo porta a "ricombinare, in un caleidoscopio di tempo e di spazio rimescolati, eventi mai esistiti, o meglio, a costruire mio spazio adatto a che eventi impensabili possano essere nominati".
Da Bion di nuovo a Freud, nel tentativo di un recupero della metapsicologia. Siamo al testo di Pier Mario Masciangelo che affonda le sue radici nella lettura che di Freud fa André Green. L'accento, in netto contrasto con le pagine precedenti, cade sull'Edipo, inteso come complesso nucleare, invariante antropologica, asse significante fallico. La struttura edipica e la sua metafora appaiono come un indiscusso 'pontifex' simbolizzante, organizzatore della individuazione e della trasformazione, quindi base processuale del pensiero. È mediante la struttura edipica che giungiamo nella teorizzazione qui esposta alla definizione del soggetto, costituito dal rapporto con i propri genitori uniti nella duplice (sessuale e generazionale) differenza, organizzata dai fantasmi originari.
La riflessione metapsicologica di Masciangelo è molto articolata. Egli intende porre l'edipo sull'asse di coniugazione e di continuità filoontogenetica del simbolo e dell'interazione evolutiva dei movimenti di proposizione ("in avanti", 'avant coup') e di ridefinizione (a posteriori, 'après coup'), del senso. Si richiama all'edipo come riferimento ad una triangolazione assiomatica: "Non l'edipo precoce del padre come pene nel ventre della madre (Melanie Klein) - precisa Masciangelo - ma il padre presente sin dall'inizio [...] fra la madre e il bambino". E con la madre entra nella metapsicologia "il movimento narcisistico verso le rappresentazioni e gli affetti suscitati intorno al corpo della madre, riserva di creatività, [...] fonte inesauribile dì attitudini e di esperienze, di ricordi e di nostalgia". Gli antichi desideri si rianimano nel transfert dove l'impotenza infantile e la inaccessibilità dell'oggetto del desiderio vengono ripetute.
Sulla funzione della teoria e delle differenze teoriche in psicoanalisi, il lavoro di A.A. Semi conclude questa prima parte del "Trattato". Riguardo alla finalità della ricerca psicoanalitica, Semi si pone qualche onesta domanda, ad esempio: quanti tra gli psicoanalisti ritengono oggi ancora valide le finalità di questa ricerca come è indicata da Freud nel "Compendio" del 1938? Oppure: l'inconscio è ancora al primo posto delle preoccupazioni teoriche degli analisti? O non è piuttosto l'attenzione al transfert/controtransfert il fine della ricerca in psicoanalisi? Certo noi analisti abbiamo in eredità una teoria che possiamo accettare e rielaborare con creatività, oppure ripudiare. Resta comunque una grande differenza dimensionale tra modelli teorici e realtà della vita psichica, un po' come è per il mappamondo nei confronti della terra. Tuttavia il modello teorico è importante perché è dietro alla mente di ogni analista nel suo operare clinico. Più che di teoria, però, Semi parla di un contesto teorico all'interno del quale vi sono teorie omologabili per la loro omogeneità e termina il suo intervento con una fantasia genetica di stampo lamàrckiano, suggestiva di una potenzialità dell'apparato psichico contenente il genoma che possa esprimersi fenotipicamente sotto la spinta di fattori ambientali.
Dalla teoria alla tecnica: Anteo Saraval segna questo passaggio domandandosi se non sia proprio lo specifico della psicoanalisi, il fatto cioè che soggetto e oggetto non sono scindibili ma legati da una relazione dialettica, a costituire il paradigma rivoluzionario rispetto alle altre scienze. La tecnica psicoanalitica si sviluppa comunque dal rapporto che nella mente dell'analista si istituisce tra esperienze e teorizzazioni psicoanalitiche. Saraval passa in rassegna in forma didattica i concetti fondanti il metodo analitico: transfert, materiale emergente nella seduta, 'timing' e forma dell'interpretazione, controtransfert, 'setting' interno ed esterno, 'acting' in seduta e fuori, criteri per decretare la fine di un'analisi, indicazioni per iniziare una teoria analitica.
La tecnica non poteva non riguardare il trattamento degli psicotici e dei bambini, un tempo esclusi da Freud dall'elenco di chi poteva usufruire della psicoanalisi in quanto incapaci di sviluppare il transfert. La Arrigoni Scortecci ricorda che Abraham è il primo analista, nel 1913, a sostenere che i pazienti psicotici sono in grado di sviluppare il transfert come e più dei pazienti nevrotici. Nel lavorare con questo tipo di pazienti, specie se schizofrenici, tuttavia, è necessario adottare un 'setting' elastico ed è importante saper creare un'area di gioco, di "scherzosità poetica" che renda reciprocamente tollerabile o piacevole l'incontro. La Arrigoni sottolinea che la violenza dello schizofrenico può essere una difesa dal dolore mentale e la paura che egli crea in seduta un modo per risvegliare nel terapeuta parti morte. Spesso la noia, come espressione della glaciazione di ogni emozione e desiderio, può indurre nello schizofrenico il desiderio di rivitalizzare ciò che è sentito come morto proprio attraverso l'agire violento nel transfert. Di fatto i lunghi ritmi della terapia dei pazienti psicotici possono scandirsi in quest'alternarsi di sequenze di vita/morte e paura/noia.
Al trattamento dei bambini si riferisce il lavoro di Renata Gaddini De Benedetti per la quale è paradossale che l'analisi infantile giochi il ruolo di parente povera della psicoanalisi se si pensa all'interesse che gli analisti hanno per i processi mentali precoci. Il testo della Gaddini è centrato essenzialmente sul lavoro di Winnicott di cui discute il concetto di trauma relativo (vissuto in una situazione relazionale con una madre non sufficientemente brava per i compiti che il bambino le chiede). Pur riconoscendo alla Klein una grande creatività, Winnicott si dissocia dal suo pensiero sia per l'istinto di morte sia per l'importanza che egli attribuisce alla madre reale e al suo reale comportamento nei confronti del bambino. Secondo la Gaddini, la Klein sarebbe giunta a negare del tutto il valore della realtà anche in tempi precoci e formativi, mentre Winnicott, pur riconoscendo il valore del mondo interno, sarebbe stato più sensibile e attento ai fattori ambientali nello sviluppo del bambino. Anche se c'è un po' di verità in questo, penso che la scissione tra il buon Winnicott sensibile all'ambiente e la insensibile Klein, opaca a tutto tranne che al mondo interno, sia un po' di maniera, soprattutto dopo lo studio della Grosskurth. (Vita di Melanie Klein, Bollati-Boringhieri, 88).
Dai bambini agli adolescenti il passo è abbastanza lungo da richiedere un capitolo a parte: è il testo di Giovanna Giaconia, ricco di teoria ed esempi clinici. A fronte della domanda retorica se si debbano o meno dare agli adolescenti interpretazioni di transfert, la Giaconia scopre subito le sue carte: "Transfert e controtransfert sembrano essere, nel rapporto con gli adolescenti, un materiale incandescente che se non prende forma nell'elaborazione interpretativa, scorre verso l'azione". D'accordo. La Giaconia poi ci avvisa dicendo che l'adolescente sollecita pesantemente il controtransfert con provocazioni, insolenze, ostilità, seduttività, ma che ha anche qualcosa che l'adulto ha perduto: la possibilità di mettere tutto in gioco. "Egli possiede un idolo - secondo la metafora di Grumberger - oscura promessa della maschera onnipotente della Sfinge"! Nella visione freudiana l'adolescente va incontro a profonde metamorfosi che riguardano gli oggetti da investire, le rappresentazioni, le fantasie di relazione con la madre, e gli investimenti diretti verso il mondo esterno. È per questo che la crisi adolescenziale ha un carattere personale e, ad un tempo, familiare e sociale. Di fatto, la relazione che l'adolescente ha con i genitori e l'uso che ne fa possono ridurre lo spazio della relazione analitica: c'è poi la considerazione che anche se desidera essere compreso, l'adolescente non vuole rinunciare al suo spazio personale di indeterminatezza in cui può sperimentare le sue trasformazioni da solo e spesso in conflitto con i genitori.
Un ruolo centrale al lavoro con gli adolescenti è rappresentato dal linguaggio. La simbolizzazione e la razionalizzazione (con il linguaggio che comporta) possono essere usati per far fronte all'angoscia e alla depressione: il pensiero astratto può essere usato per denegare la realtà nelle sue significazioni affettive e lo stesso parlare può essere investito al posto degli affetti, risultandone un linguaggio anaffettivo che l'analista esperisce controtrasferalmente come noia. A questo punto la Giaconia pone un problema: è necessario interpretare precocemente - come vorrebbe la Klein - questa angoscia adolescenziale e il materiale transferale cui l'angoscia è legata? La risposta della Giaconia è che è necessario adattare lo strumento analitico all'adolescente, ma appare di notevole interesse in questo contesto capire che cosa si intende con "adattare" e quanto di queste richieste adolescenziali di adattamento del 'setting' o del controtransfert non siano già una modalità transferale tesa a far agire l'analista o a ridurre provocatoriamente le sue capacità interpretative.
In un "Trattato di psicoanalisi" non poteva mancare un capitolo dedicato alla terapia di gruppo. Silvia Corbella inizia il suo testo con un richiamo storico per poi inserire il lettore "nel dialettico clima gruppale, in cui il doppio rimando individuo gruppo è costantemente presente". Dalle prime esperienze del primo Novecento la teoria e la tecnica di gruppo si è progressivamente arricchita e trasformata fino alla formulazione bioniana del concetto di "mentalità di gruppo" che si qualifica attraverso una triade di modalità e comportamenti definiti come assunti di base (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento) e che permette al gruppo di agire come unità "dal momento che ogni individuo possiede una sorta di 'valenza' inconsapevole che gli consente di entrare in combinazione col gruppo nel determinare gli assunti di base e nell'agire secondo essi". Entrando nel vivo delle dinamiche del gruppo e delle fantasie che il paziente ne ha, si può osservare che il gruppo appare come una sorta di unità indifferenziata e monolitica che da una parte crea al paziente ansia ma dall'altra lo rassicura rispetto alle sue angoscie di frammentazione. La funzione di 'specchio' esercitata dai membri del gruppo reciprocamente, costituisce una base di integrazione in particolare per quei pazienti che hanno disturbi narcisistici nella costituzione e integrazione del Sé. Ciò rende necessario, nel comporre un gruppo, fare attenzione ad un bilanciamento ottimale in quanto la omogeneità del gruppo ne favorisce la coesione, la sua eterogeneità il potenziale di miglioramento.
Silvia Corbella descrive poi le diverse fasi delle dinamiche gruppali, sottolineandone gli aspetti transferali essenziali riferiti alla rete relazionale familiare e il gioco, comune alla psicoanalisi individuale, della fusione-separazione-individuazione nel processo della crescita mentale e della acquisizione della identità. Il lavoro che si compie nel gruppo, permette a quest'ultimo di porsi come un contenitore che tollera ed elabora gli impulsi distruttivi dei suoi membri i quali, con la maturazione, assumono come modello il terapeuta e diventano progressivamente capaci di comprendere il processo gruppale e di creare una "cultura" interpretativa.
La chiusura del "Trattato" è affidata a Giorgio Sacerdoti con un tema che riguarda i problemi di applicazione e sviluppo della psicoanalisi. Sacerdoti si rifà a Freud quando scrive che "Educatore può essere soltanto chi sa immedesimarsi nella vita psichica infantile... Quando gli educatori avranno preso confidenza con i risultati della psicoanalisi, troveranno più facile riconciliarsi con determinate fasi dello sviluppo infantile". Sul problema della psicoanalisi applicata, Sacerdoti fa innanzitutto riferimento alla applicazione della psicoanalisi ai gruppi che sembra giustificare quella riduzione metonimica per la quale "il gruppo è un individuo", ma che rischia di produrre uno scadimento di interesse per quell'insieme di "proposizioni e/o esigenze fondamentali del metodo della psicoanalisi (individuale) che ne costituiscono la dottrina". Sacerdoti termina interrogandosi sui limiti di applicazione della psicoanalisi e richiamandosi alle preoccupazioni di Bion, per il quale la psicoanalisi applicata anche se "applicata" alla cura delle gente possa essere un metodo per metterla sotto controllo e renderla innocua alla istituzione.
Alla fine di questo mio lavoro di recensione desidero avanzare qualche perplessità su alcune scelte fatte dal curatore: innanzitutto i "Percorsi concettuali" che a mo' di appendice chiudono questo primo volume del "Trattato". Giustificandosi con la considerazione che "una delle funzioni più importanti del nostro pensiero è quella di stabilire legami", il curatore si è lasciato andare ad una kermesse di grafici degni di un trattato di geometria che lasciano una impressione di difficoltà enigmistica. Dubito che servano a qualcuno.
L'altra obiezione riguarda l'assenza, in un "Trattato" come questo che ha una impostazione storica, di pagine dedicate alla psicoanalisi in America, Francia e Italia. Il pensiero psicoanalitico americano non vi compare affatto. Lacan viene liquidato in tre pagine di una nota. Gli unici analisti italiani ricordati in nota sono Franco Fornari e Eugenio Gaddini recentemente scomparsi. Non un cenno al pensiero e all'opera di Edoardo Weiss, che ha introdotto la psicoanalisi in Italia n‚ a Cesare Musatti il cui contributo allo sviluppo e alla diffusione della psicoanalisi italiana è fuori discussione n‚ a Emilio Servadio, attento cultore, tra l'altro, di psicoanalisi applicata ai fenomeni paranormali.
Con questa nota dunque esprimo anche l'augurio che in una prossima edizione il curatore faccia giustizia di queste dimenticanze e offra al lettore italiano una storia - visto che è questo il percorso che attraversa il "Trattato" - il più possibile completa del pensiero psicoanalitico internazionale, certo molto cresciuto, anche in complessità, dai tempi di Freud.

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