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recensione di Luzzatto, S., L'Indice 1996, n. 3
La recente scomparsa di Richard Cobb, già titolare della cattedra di storia moderna all'università di Oxford, non significa soltanto l'uscita di scena di un personaggio fra i più originali dell'accademia anglosassone. In Cobb, la storiografia internazionale ha ragione di piangere il maggiore studioso della Rivoluzione francese che abbia operato durante la seconda metà del Novecento. Di più, viene meno con lui l'appassionato testimone di un mondo a sua volta scomparso: il mondo della provincia francese, minacciato prima dall'omologazione delle culture e dei comportamenti, stritolato poi dall'abbraccio mortale del fast food e del Tgv.
Sul comodino, Cobb amava tenere i libri di autori poco frequentati dagli storici, molto amati dai professori di liceo e dai lecteurs de gare: Raymond Queneau, Georges Simenon. Al pari di questi suoi alter ego d'oltre Manica, Cobb ha speso buona parte delle proprie energie letterarie nello sforzo di elevare un monumento alla memoria della Francia provinciale degli anni trenta, degli anni quaranta (nonostante tutto), e ancora degli anni cinquanta. Ma già nell'Inghilterra degli anni venti il rampollo di buona famiglia aveva deciso che la geografia e la storia di un paese vanno percorse a piedi e vanno pedalate in bicicletta, prima di essere lette in biblioteca ed esplorate in archivio. Fedele ai principi del suo originalissimo apprendistato di storico (vedi riquadro), Cobb adulto ha percorso come un ciclista, se non come un maratoneta, le strade della Francia di provincia. Così che pochi titoli di opere miscellanee potrebbero dirsi più azzeccati di questo "Tour de France", che raccoglie ora anche in lingua italiana una ventina di scritti sopra la storia francese dalla Rivoluzione alla Terza Repubblica.
Lo storico si è spostato al ritmo dei suoi personaggi: il ritmo lento degli uomini e delle donne del Settecento, il ritmo appena più mosso dei provinciali dell'Ottocento. Non senza civetteria, Cobb vanta di avere condiviso con loro l'esperienza delle camere miseramente ammobiliate, l'occhio per i buoni vestiti di terza mano, l'emozione della bottiglia di vino rosso scolata al chiaro di luna. Ma alla scuola dei compagnons del Settecento e dei flƒneurs dell'Ottocento, lo storico ha soprattutto imparato l'arte di non avere fretta, la capacità di prendere tempo. Mentre ha appreso dal commissario Maigret il precetto di Jules Verne: "Guarda a tutt'occhi, guarda!". La ricetta storiografica di Cobb risulta quindi di una semplicità disarmante: cercare dappertutto i documenti, leggerli, pensarci sopra, leggerne ancora qualcun altro, e scrivere chiaro. Per il resto, nulla lo annoia quanto la metodologia della storia, "invenzione di tedeschi tromboni" e "rovina degli sventurati allievi della Scuola Normale di Pisa".
Cobb prova identica noia per quanti fra i suoi personaggi, pur avendo avuto la fortuna di abitare in Francia, non hanno saputo approfittare della locale douceur de vivre. Si prenda Robespierre: la sua vita "a stento si può dire che sia stata vissuta". Già Cobb non considera un'esistenza piena quella di un uomo che morì senza essersi scaldato al sole di Provenza, senza avere traversato i boschi dei Pirenei, senza essersi avventurato per i valichi alpini; un uomo morto, a trentasei anni, senza avere mai visto il mare... A Robespierre e ai rivoluzionari del suo stampo, Cobb rimprovera la fretta di vivere, oltre che la mancanza di un briciolo di fantasia: "Non mi sono mai imbattuto in un deputato [della Convenzione] sulla riva del fiume, o che nuotasse nudo nella Senna".
Va pur detto che i saggi raccolti nel volume adelphiano appartengono alla fase discendente della parabola storiografica di Cobb. A partire dagli anni settanta, infatti, il professore di Oxford si è ostinato a guardare alla Rivoluzione francese attraverso la lente deformante del "si salvi chi può!". Nei suoi ultimi contributi storici, Cobb ha riconosciuto come personaggi immancabilmente genuini e intimamente generosi tutti quelli che hanno saputo stare alla larga dalla politica: contrabbandieri o prostitute, vagabondi o giocatori d'azzardo. Invece, Cobb ha fatto dei sanculotti, dei giacobini, dei comunardi - di quanti hanno provato a cambiare davvero la storia di Francia - altrettante incarnazioni del male: "Le rivoluzioni sono in primo luogo macchine che distruggono la vita, umana e animale; i rivoluzionari sono odiatori della vita, almeno quale essa è, qui e ora, qualcosa che secondo loro si può disinvoltamente sacrificare in nome di un futuro luminoso; non sanno o non vogliono venire a patti con le sue complessità, i suoi dubbi e le sue contraddizioni; e l'unica cosa in cui tutte le rivoluzioni siano riuscite benissimo è la morte".
La vena più autentica dell'ultimo Cobb è quella del moralista. Un moralista sui generis, beninteso, forse il più paradossale dei moralisti possibili: il moralista che rifiuta come "fesserie" la politica, la guerra, lo sport, precisamente in quanto si ammantano di principi morali; mentre indugia sopra "l'errore, il crimine, l'adulterio", in quanto immediate epifanie della natura umana. Detto fatto: "Tour de France" è una memorabile galleria di tipi umani, troppo umani... Si comincia con gli assassini di una tranquilla coppia di locandieri, nei Paesi Bassi del tempo napoleonico; si continua con i montagnardi della Convenzione, tanto presi dai propri sogni di affrancamento dell'umanità da non accorgersi di camminare sopra una distesa di cadaveri; si riparte con le teste calde della Comune di Parigi (teste vuote, che prendono una tragedia per una festa), e si arriva alle puttane d'angiporto nella Marsiglia del dopoguerra, "logori dépôts d'archives humaines". Tappa per tappa, si scopre che il Giro di Francia organizzato da Richard Cobb esclude la possibilità di un vincitore.
In fondo, non appare un caso quello per cui la tarda produzione di Cobb ha trovato ospitalità - in Italia - presso le edizioni Adelphi: nuova scommessa di Roberto Calasso sopra le virtù del minimalismo storiografico.
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