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Dettagli

1990
27 febbraio 1990
316 p.
9788839705822

Voce della critica

SALISBURY, HARRISON E., Diario di Tien An Men

PECORA, GIULIO, Tienanmen, morire per la libertà

FIORE, ILARIO, Tien An Men

COLLOTTI PISCHEL, ENRICA, Dietro Tien An Men. La Cina dopo Mao
recensione di Francisci, M., L'Indice 1990, n. 4

Tre diari ed un vero e proprio saggio socio - politico sui 55 giorni che sfociarono nella tragedia di Tien An Men. Il primo dei diari è dell'ottobre dello scorso anno. L'ha scritto Ilario Fiore, corrispondente della Rai da Pechino da una decina d'anni. È un diario "fedele" nel senso che, dal 15 aprile (morte di Hu Yao Bang, segretario del partito, defenestrato nel gennaio del 1987 per aver sostenuto le riforme politiche) al 9 giugno dell'89 (spettacolare ricomparsa di Deng alla televisione cinese) non salta un giorno della lunghissima crisi. Deng è l'unico, sfortunato eroe positivo del diario: "l'ottuagenario Padre della Riforma è combattuto tra la necessità del castigo (!) ai ragazzi indisciplinati, rei di avergli nel frattempo mandato a monte il vertice con Gorbaciov, e il desiderio di salvare il salvabile per evitare che l'era di Deng finisca in un bagno di sangue". "Deng è deluso dall'atteggiamento strisciante di Zhao (che ha lasciato l'iniziativa ai falchi), rammaricato dall'intuizione che una parte dell'A.P.L. trova qualche riscontro nel partito, tra i conservatori ostili alle riforme". "Deng è costretto a sanzionare la linea dura e non ha mai nutrito eccessiva simpatia per l'ingegnere russo (il primo ministro L. Peng)".
Li Peng, invece, è la bestia nera di Ilario Fiore. È, come si è visto, un "ingegnere russo", per di più "mediocre", ha "una lingua di serpente" (che adopera per screditare il primo ministro Zhao Ziyang e i suoi figli affaristi), ritiene di essere solo lui (e non Deng o Zhao) il vero "architetto della riforma"; scarica la sua "astiosità verso l'avversario ormai sconfitto, dato caratteriale da non dimenticare...". Li Peng "è il solo veramente preoccupato, forse perché sa che sta giocando una partita superiore alle sue possibilità". Li Peng ha accettato l'incontro con gli studenti (del 18 aprile) per meglio preparare la trappola che scatterà fra il 3 ed il 4 giugno. "Con il suo tono noioso, di voce notarile di quadro politico", respinge il dialogo, manda allo sbaraglio il patetico ed inconcludente primo ministro Zhao che, il 19 aprile, saluta piangendo gli studenti e dice di essere giunto "troppo tardi".
I "falchi" organizzano il colpo di mano "nel tardo pomeriggio di giovedì 18 maggio" (Gorbaciov nel frattempo ha lasciato Pechino): sono soprattutto Li Peng, il sindaco di Pechino Chen Xitong e il capo dello stato Yang Shangkun (che è anche il vero capo dell'A.P.L., come vice presidente della Commissione Centrale Militare). Deng, anche se ha preso parte a questa decisiva riunione ristretta dell'Ufficio Politico, non viene nominato da Fiore che afferma altrove, che Deng aveva espresso il parere di far intervenire l'esercito fin dal 23 aprile, cioè immediatamente dopo la morte di Hu Yaobang e prima ancora del disgraziato vertice con Gorbaciov.
I1 22 maggio un centinaio di vecchi ufficiali superiori dell'A.P.L. (fra cui l'ex ministro della difesa Zhang Aiping e l'ex capo di stato maggiore Yang Dezhi) scrivono una lettera alla Commissione Centrale Militare, contro la legge marziale e scongiurando di non usare l'A.P.L. contro il popolo. Vengono ignorati. Ormai l'A.P.L. è l'armata di Yang Shangkun e del suo clan di famiglia. Lo "squallido primo ministro in carica" all'ombra di Yang "per diventare forte ha bisogno del sangue dei deboli", degli studenti e del movimento ribelle.
La tesi di Fiore in breve è questa: Deng e gli effetti delle sue riforme (esclusivamente economiche) non sono alla radice dei disordini e della loro sanguinosa repressione; nel vertice dell'A.P.L. non c'è stato alcun contrasto (ma solo una voluta inefficienza); i "falchi", ma soprattutto l'odioso Li Peng, si sono dimostrati ad arte deboli ed esitanti (soprattutto fra il 19 maggio e il 2 giugno) per giustificare una repressione terroristica e sanguinosa, impiegando almeno 200.000 soldati carri armati, mitragliatrici, auto - blindo ed artiglierie; Deng per fortuna, dopo il bagno di sangue, si è subito ripreso, ha nominato segretario del partito e presidente della Commissione Militare Centrale Zhang Zemin.
E chi è Zhang Zemin? E l'opposto di Li Peng: è un tecnocrate moderno, è un ingegnere addirittura "elettronico", è un grande manager di Shanghai, è un riformista fedele a Deng, parla un inglese fluente insieme al russo e al romeno (!), ha sposato la figlia dell'ex presidente della repubblica Li Xiennien. "Deng lo ha premiato. Il vecchio ha chiuso in disgrazia la sua lunga carriera ma, con la scelta del successore di Zhao, ha dimostrato di non avallare un 'dopo Deng' macchiato del sangue inutilmente versato a Tien An Men".
È difficile credere che Deng, accanito difensore del ruolo onnipotente del partito unico, tiepido per non dire contrario alle riforme politiche, nemico giurato del liberalismo borghese e con un grandissimo ascendente sull'esercito, si sia lasciato manipolare in una crisi gravissima - ma prevista - come quella della primavera scorsa, da un gruppo eterogeneo di "falchi". Il diario di Fiore sembra scritto in onore di Deng e della scelta (speriamo più felice, per lui, delle prime due) del suo terzo delfino. Sembra anche concepito per giustificare tutti coloro che hanno sempre pensato che Deng volesse dire economia di mercato uguale pluralismo uguale democrazia.
Di tutt'altro parere sono Giulio Pecora, corrispondente dell'Ansa da Pechino, ed Harrison E. Salisbury, vecchio cremlinologo, redattore e reporter del "New York Times", conoscitore della Cina (ha scritto nel 1987 "La vera storia della Lunga Marcia"). Doveva girare, insieme ad una compagnia televisiva giapponese, un documentario sul quarantesimo anniversario della Fondazione della Repubblica Popolare Cinese... Ha potuto solo scrivere un diario sui cinque giorni (dal 1 al 5 giugno) trascorsi a Pechino.
Salisbury e Pecora non hanno dubbi sul totale e determinante coinvolgimento di Deng nell'azione repressiva. L'esercito è stato sempre amico di Deng e anche se, all'inizio, ci potrà essere stato qualche contrasto nei vertici militari; l'A.P.L. e soprattutto le "unità speciali" agirono, la mattina del 5 giugno, con feroce determinazione. Fu una vera e propria operazione di guerra che durò tre giorni perché solamente l'8 giugno, dopo violentissimi scontri nelle strade del centro e della periferia di Pechino, l'esercito poté dire di avere la capitale sotto controllo. Giulio Pecora precisa che il 7 giugno l'esercito completò l'opera con un'altra azione dimostrativa di guerra, questa volta contro gli stranieri (nel principale dei quartieri. ad essi riservati), colpevoli di essere i veri responsabili della "liberalizzazione borghese" e di simpatizzare con i rivoltosi. Molte finestre andarono in frantumi e non pochi rischiarono la vita.
Pecora fornisce dati molto interessanti sulla lunga e strettissima amicizia fra Deng e "il più militare dei politici cinesi", Yang Shangkun, capo dello stato e vero "padrone" dell'ammodernato esercito cinese. In appendice al suo libro figura una traduzione quasi integrale del rapporto politico del sindaco di Pechino Chen Xitong, uno dei "falchi", sui fatti di Tien An Men. È un documento di estremo interesse perché dimostra come l'attuale dirigenza politica sia capace di auto - ingannarsi e di ingannare gli altri sulle vere cause della rivolta: "una manciata di persone che ha sfruttato i tumulti (sopportabili) degli studenti", per organizzare un colpo di mano controrivoluzionario, con forti appoggi internazionali e di masse urbane di "fuorilegge" (in realtà disoccupati).
Salisbury, dal canto suo, è deluso dal comportamento dei suoi vecchi amici Deng e Yang Shangkun. Scrive: "Deng ha mandato in malora tutto: se stesso, la sua grande fama, la Cina attuale, quella futura. Temo che finirò col detestare questo Governo nel quale uomini che finora consideravo con favore, e che conosco da lungo tempo, hanno giocato un ruolo vile e deprecabile". La "banda dei tre" (Deng, Yang e Li Peng) è al potere "e tutto sta andando come loro vogliono che vada".
Ma lo sdegno di Salisbury (di dubbio effetto sui destinatari) si concentra su Deng e Yang perché Li Peng, il primo ministro, è "un semplice strumento delle decisioni dei suoi superiori e dei militari", mentre Zhang Zemin (il nuovo segretario generale del partito) "non ha alcuna vasta base politica, neppure nella sua città, Shanghai". L'operazione repressiva - dice Salisbury - era stata preparata fin dal 1987 (moti studenteschi che portarono alla defenestrazione di blu Yaobang) e, conclude Salisbury, oggi "gli ultimi relitti gerontocratici, insieme ai loro alleati, i militari reazionari", sono più che mai convinti, sul modello delle "Tigri Asiatiche" (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan) che la modernizzazione della Cina non ha bisogno di democrazia (né formale né di massa) ma solo di capitali stranieri, di tecnologie ultramoderne, di autoritarismo e di corruzione. Ancora una delusione di un grande liberal per la doppiezza dei suoi "vecchi amici" riformisti.
Il puntiglioso saggio di Enrica Collotti Pischel è una ricerca sistematica e appassionata delle cause vicine e lontane di carattere storico culturale, politico e socio - economico della rivolta di Pechino e della sua sanguinosa repressione. Sembrerebbe, a prima vista, che la Collotti Pischel concentri la sua analisi sui dodici anni (1978 - 90) di riforme economiche denghiste, per rispondere all'angosciosa domanda del come un partito comunista si sia potuto trasformare in pochi anni in un partito fascista, in una riedizione peggiorata del Guomindang.
La risposta nel breve periodo è convincente. Si tratta di una perversa combinazione di vari elementi: a) la riconsegna dei contadini (800 milioni, di cui più di 200 ancora analfabeti) alla terra, cioè al loro mondo tradizionale ed arcaico (non certo "moderno"); b) l'incitamento martellante all'iniziativa privata e al conseguimento del profitto ad ogni costo; c) gli investimenti speculativi ed incontrollati, soprattutto dei cinesi d'oltremare; d) una diffusa corruzione endogena, generata cioè da un sistema produttivo e di mercato tuttora controllato da una burocrazia statale e partitica senza più prestigio, ed incline quindi a negoziare il suo residuo potere con la nuova e spregiudicata imprenditoria nazionale e d'oltremare; e) la quasi assoluta mancanza di meccanismi di controllo e di redistribuzione del reddito (sistema fiscale, politiche regionali, strumenti macro - economici di controllo del mercato); f) l'emarginazione economica e sociale (nessuna riforma politica) degli intellettuali, degli studenti, dei funzionari, in generale dei ceti urbani più evoluti, anche per effetto di una congiuntura (a partire dal 1987 - 88) caratterizzata da inflazione, austerità e ristagno economico; g) l'inurbamento di masse (30, forse 40 milioni) di contadini poveri o senza terre, colpiti dal blocco degli investimenti, soprattutto nel settore dell'edilizia; h) la presenza, infine, a Pechino, nel maggio scorso, di migliaia di giornalisti stranieri e delle principali reti televisive americane, europee e giapponesi, per seguire lo storico vertice Deng - Gorbaciov.
A massacro avvenuto, il 9 giugno Deng dichiara alla televisione: "Questa tempesta doveva scatenarsi, prima o poi. Essa è stata determinata dall'atmosfera internazionale e da quella cinese. Doveva accadere e così è stato, indipendentemente dalla volontà degli uomini". Ma l'inettitudine e la protervia con cui Deng ha condotto le riforme, l'ottusa opposizione a qualsiasi riforma politica, il sostanziale disprezzo verso il ceto intellettuale e studentesco, l'indifferenza a qualsiasi aggiornamento del sistema educativo ed universitario del paese, il cinico sacrificio di due segretari generali del partito colpevoli di essere "amici degli studenti" e troppo permeabili all'"inquinamento liberal - borghese" non sono fatti "indipendenti dalla volontà degli uomini", anzi dalla volontà del "Grande Vecchio".
Le cause immediate della rivolta sono certamente quelle elencate dalla Collotti Pischel. Per contro, assai meno convincente è il suo tentativo di risalire alla teoria e alla prassi rivoluzionarie di Mao per spiegare la spietata azione repressiva di Tien An Men. "È necessario dire - osserva la Collotti Pischel - che Mao ottenne la vittoria (nel 1949) attraverso meccanismi ed orientamenti ideologici che non portavano in sé i germi della democrazia" (p. 75). Neppure i "germi"? Poco più avanti (p. 78) la Collotti Pischel aggiunge che la pratica, costante nella Cina di Deng, di attribuire a "piccoli gruppi" la manipolazione degli studenti a fini eversivi "ha la sua radice nella logica di Mao". Conclude la Collotti Pischel: "L'aver considerato secondaria la repressione di forze che potessero essere definite 'piccoli gruppi' anziché 'grandi masse' fu alla radice della sconfitta di Mao ed anche del dramma attuale".
Far risalire a Mao la fatale trasformazione del partito comunista cinese in un partito fascista sembra un'operazione tipica dell'attuale storiografia marxista (o post - marxista) che, oppressa da innumerevoli complessi di colpa, afferma ormai, in ogni circostanza, che le vere ed uniche democrazie sono solo quelle realmente esistenti in Occidente, con le loro rigide regole formali e procedurali. I contenuti, la sostanza, la reale pratica democratica non contano.
Ma la prassi democratica di Mao tentata senza fortuna in un immenso paese arretrato ed oppresso, fu luminosamente sostanziale: "ribellarsi è giusto; la borghesia è nel partito; sparare sul quartiere generale; appoggiare o reprimere le grandi masse, questa è la differenza tra noi e un partito fascista". Democratici e "sostanzialisti" furono i rivoluzionari cinesi del 1911, gli intellettuali e gli studenti del Movimento del 4 Maggio del 1919, il Mao del 1927, della Lunga Marcia, delle Zone Rosse liberate e della Rivoluzione Culturale. Mao falli, sacrificò le Guardie Rosse (come più volte ricorda la Collotti Pischel) ma riuscì in extremis a sconfiggere la versione confuciana (Liu Shaoqi) e quella militare (Lin Piao) del comunismo cinese. Mao riuscì a controllare il partito solo a partire dal 1935. Ma il partito non lo accettò mai, come dimostra la parabola vittoriosa di Deng, l'eterno segretario generale del partito.
È vero dunque quello che dice la Collotti Pischel, se riferito alla millenaria storia della Cina: in essa non germogliò mai, né nella versione "sostanziale", né in quella "formale", il seme della democrazia. In Cina la democrazia (sostanziale, naturalmente) appare nel 1911, nel 1919, con i comunisti non bolscevichi (quale socialismo, per la Cina?). Oggi hanno vinto i confuciani modernisti.
Sun Longji, cinese originario di Hong Kong, residente attualmente negli Stati Uniti, ha scritto un libro (Hong Kong, 1983) in cui parla delle "Strutture fondamentali della cultura cinese". Dice, riferendosi al complesso di Edipo: "In Cina (contrariamente a quanto avviene in Occidente) è il padre che uccide il figlio". A Tien An Men, il 4 giugno del 1989, i nonni hanno ucciso i figli e i nipoti.
Per concludere questo rompicapo, viene fatto di domandarsi: qual è stato il vero, grande errore di Deng? Forse quello di aver trascurato la modernizzazione della "Polizia Armata del Popolo". Ma non è mai troppo tardi: è del 15 febbraio la notizia che è stato sostituito l'intero vertice (con ufficiali dell'esercito) della polizia armata del popolo (600 mila uomini che hanno dato pessima prova di sé nei 55 giorni che precedettero Tien An Men) ed è del 2 marzo la notizia che l'A.P.L. ha ricevuto nuovi e maggiori finanziamenti come ricompensa per aver represso, con i propri reparti speciali, la "controrivoluzione" di Tien An Men. I padri (Deng, 85 anni e Yang Shangkun 83) si apprestano, ancora una volta, ad applicare il complesso di Edipo alla cinese?

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