Quella del fotogiornalista è un figura anfibia: operando tra informazione ed emozione, è stato accusato già nella stagione d'oro che va dagli anni trenta ai settanta di speculare sul "dolore degli altri", ma allo stesso tempo, pur essendo raramente riconosciuto come vero giornalista, ha avuto storicamente un ruolo centrale nel far conoscere le realtà più tragiche e invisibili del Novecento. Un ruolo che non è affatto tramontato oggi, nell'epoca della comunicazione visiva simultanea dovuta al digitale, della moltiplicazione degli obiettivi in ogni angolo del mondo e anche del tramonto della professione che si conosceva una volta. Il fotogiornalista maneggia una materia delicata e ambigua e questo fa sì che possa esprimere opinioni, persino quando è embedded, più e talvolta meglio del giornalista della penna, sottoposto alle logiche dell'opportunità politica. È anche per questo che nella sua lunga storia la fotografia di reportage è rimasta "umanista" (è così che viene ancora oggi definito il premio della fondazione W. Eugene Smith), sa e può esercitare uno sguardo empatico o indignato sugli orrori del presente, sia pure portando sempre con sé una vocazione speculativa che nasce da ambizioni personali ma è anche alimentata da un contesto mediatico sempre più retorico e arrogante. Questa storia e queste logiche sono ben descritte in un volume che documenta i diversi periodi produttivi di sessant'anni di fotogiornalismo, raccogliendo le foto premiate, dal 1955 al 2014, nei cinque più importanti concorsi fotogiornalistici internazionali (dal World Press Photo all'Oskar Barnack Award). Il volume è arricchito dal commento di alcuni dei principali editor fotografici, spesso anche giurati nelle premiazioni, dalle cui parole sembra che ciò che il pubblico si aspetta dal fotogiornalista (di cui le giurie vogliono farsi interpreti) non sia cambiato nel tempo: in estrema sintesi, fotografie "belle" possibilmente del dolore, ottenute a rischio della vita. Christian Caujlle, photo editor e direttore artistico della francese "Vu" ricorda le animate discussioni necessarie per premiare foto sportive dalla indubbia qualità fotografica invece delle tragiche, e perciò emozionanti, immagini delle vittime di un terremoto. Negli anni la percezione del fotogiornalismo è cambiata dalla "scoperta" della condizione umana degli anni cinquanta, alla protesta di fronte alle foto del Vietnam, all'indifferenza degli anni ottanta e il digitale ha cambiato, almeno in singoli casi, anche l'etica del fotografo, se una parte rilevante del lavoro delle giurie è oggi dedicata alla ricerca di eventuali (e proibite) modifiche dell'immagine in postproduzione. Ma la grande lezione del fotogiornalismo storico ha insegnato che la complessità del mondo, e la necessità di conoscerne i drammi, non può ridursi alla spettacolarizzazione del dolore e che lo sguardo attonito di un soldato americano esausto dopo una giornata di combattimenti in Afghanistan (scattata nel 2007 da Tim Hetherington, che sarebbe rimasto ucciso a Misurata nel 2011) racconta la follia della guerra più di una brutale immagine di morte. Il fotogiornalismo, un prodotto della cultura occidentale ma impegnato a osservare soprattutto oltre i confini di questa, è necessario, in passato come oggi, per ricordarci la precarietà delle nostre sicurezze. Per noi italiani poi, sprovvisti di una informazione sul mondo che non sia quello minuscolo a cui apparteniamo, queste fotografie sono l'unico contatto con realtà che i nostri organi di informazione preferiscono ignorare, a meno che naturalmente non ci raggiungano a casa nostra. G. D'Autilia
Leggi di più
Leggi di meno