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Il terzo strike. La prigione in America - Elisabetta Grande - copertina
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Il terzo strike. La prigione in America - Elisabetta Grande - copertina

Descrizione


Elisabetta Grande mostra come l'America abbia abbandonato il principio della proporzionalità della pena al reato, della risocializzazione del condannato, in nome di una "certezza" sempre più vicina alla tentazione di estromettere definitivamente il detenuto dalla vita sociale, quando non a farne lo strumento di una speculazione d'affari. In Italia ci fu una appassionata discussione fra giuristi, gli uni persuasi che la pena dovesse essere resa duttile in corso d'esecuzione, e rivalutata rispetto all'evoluzione personale del condannato, gli altri spaventati dall'arbitrio potenziale di quella flessibilità, e inclini a una riforma del codice penale che correggesse la misura eccessiva delle pene previste. Prevalse in teoria la prima, con la riforma del 1975 e le successive misure, di cui il nome di Mario Gozzini diventò il simbolo, ma progressivamente svuotate da provvedimenti ispirati alla galera come toccasana e regalo circense alla pubblica opinione. L'indulto - una scelta retrospettivamente preterintenzionale, così da spaventare i suoi stessi autori - ha riportato un sollievo umano e un po' di legalità nella condizione delle carceri. Sono necessarie però riforme sostanziali: la cancellazione di leggi punitive e contrarie alla vera sicurezza, la riforma del codice penale che depenalizzi gli attuali reati di scarsa o nulla pericolosità. La proporzione di gente in prigione non è un indice della criminalità e dell'insicurezza di un paese, ma solo della sua politica penale.
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Dettagli

2007
19 aprile 2007
168 p., Brossura
9788838921940

Voce della critica

Non manca la letteratura accademica, anche italiana, sul diritto penitenziario degli Stati Uniti. Ma il libro di Elisabetta Grande, preceduto da una partecipe introduzione di Adriano Sofri, si raccomanda anche al pubblico dei non specialisti per un doppio pregio, caratteristico della buona e seria divulgazione. Rende facilmente comprensibile, grazie a un linguaggio piano e scorrevole, un fenomeno complesso sia nelle lontane origini legislative, sia negli sviluppi successivi, senza mai scadere nella banalità, e nello stesso tempo senza indulgere negli eccessi del "giuridichese". Inquadra molto bene l'incredibile dato statistico relativo alla popolazione carceraria nelle più generali scelte politiche di oltreoceano in materia di welfare.
Oggi i detenuti nelle prigioni nordamericane sono oltre due milioni e mezzo. Se si tiene conto che secondo gli esperti l'intero apparato repressivo richiede una persona per ciascun detenuto, l'autrice ha buon gioco a ricordare che ne risulta falsato il confronto delle statistiche sulla disoccupazione con quelle europee. Tenendo a parte, ovviamente, i quattro milioni e mezzo sotto tutela dell'apparato repressivo ma non in carcere, perché sottoposti alla messa in prova o in libertà condizionata.
Da dove nasce questa ipertrofia? L'esame dei diversi fattori si snoda nel libro iniziando dall'analisi del progressivo abbandono del principio di indeterminatezza legislativa della pena, che informava fino a tutti gli anni settanta del secolo scorso il sistema nordamericano, consentendo al giudice un grande potere discrezionale di valutazione del singolo caso e agli organi responsabili della messa in prova di valutare il grado di rieducazione del condannato (anche per gravi reati) al fine di concedergli la scarcerazione. Con la conseguenza di mantenere il numero dei detenuti su soglie paragonabili a quelle dell'Europa continentale.
Ma la filosofia rieducativa della pena che stava alla base del sistema veniva contestata nella cultura giuridica sia di destra che di sinistra. I giuristi liberal temevano arbitri e discriminazioni nell'applicazione del sentencing indeterminato, ma soprattutto ritenevano impossibile rieducare il condannato privandolo della libertà e suggerivano pertanto di abolire il carcere sostituendolo con misure alternative di reinserimento sociale almeno per i reati contro il patrimonio. Dal lato opposto, i giuristi conservatori si facevano portatori di una legislazione che introducesse la certezza edittale della pena concepita come castigo su soglie elevate e colpisse la recidiva con la prigione di lunghissima durata o addirittura perpetua, speculando sul pessimismo calvinista circa le possibilità di recupero del colpevole e soprattutto sull'ideologia securitaria fortemente diffusa nella popolazione.
Non si è manifestato in questo caso il paradosso della democrazia, che vorrebbe le classi dirigenti più illuminate delle maggioranze che le legittimano, quando si tratti di regolare situazioni che riguardano minoranze, specie se si tratta di emarginati. La tentazione del populismo è difficilmente resistitibile e così le richieste di law and order provenienti dall'elettorato sono pienamente recepite per la strada più semplice anche se, come l'esperienza insegna ovunque, la più avara di risultati. Le amministrazioni sia repubblicane che democratiche succedutesi dalla fine degli anni settanta emanano nuove leggi che introducono l'obbligo della pena detentiva con minimi severi, anche per reati lievi, e soprattutto sanzionano la recidiva come fosse un indice di pericolosità sociale e di irrecuperabilità definitive. Apprendiamo così che imputati già condannati due o più volte per reati non gravi si vedono affibbiata la condanna a vita per un ultimo reato consistito nel furto di una merendina, o di tre mazze da golf o di nove videocassette! L'indulgenza populista sconfina nella barbarie, con il beneplacito della conferma "democratica", come nel caso della California, che approva in un referendum con il 72 percento dei voti una legislazione sulla recidiva ispirata alla filosofia del "third strike and you are out" (eliminazione al terzo strike, come nel baseball).
L'aumento della popolazione carceraria è una conseguenza immediata non solo del cambio di passo della legislazione sulla pena. Altri fattori si aggiungono, sottolinea l'autrice. Prima di tutto la guerra alla droga scatenata da Reagan, con la previsione di nuove fattispecie incriminatrici cui consegue un aumento del 99 per cento delle azioni penali federali già tra il 1982 e il 1988 per reati concernenti consumo e vendita di sostanze stupefacenti, con gran numero di condanne (nel 2005 viene superato il 20 per cento dei detenuti) anche nei confronti di persone prive di precedenti penali. Poi il costo enorme della difesa, che obbliga i poveri ad avvalersi di difensori d'ufficio mal pagati e quindi molto spesso così incompetenti e/o disimpegnati da provocare numerose inchieste giornalistiche di denuncia per aver causato la condanna di persone poi risultate innocenti anche in processi chiusi con la pena capitale. Infine, la tendenza ad accettare le prime volte veloci patteggiamenti di pena anche se non colpevoli, per risparmiare sui costi oltre che per la frequente disparità delle armi tra accusa e difesa, così da contribuire enormemente alla produttività della macchina repressiva.
Tanti detenuti in più, poveri quasi tutti. Molte nuove prigioni. Alcune, i cosiddetti supermax, indirizzate all'annientamento psicofisico dei detenuti ritenuti pericolosi, cui è dedicata l'appendice di Clara Mattei. Con rilevanti opportunità di business da un lato per i grandi imprenditori dell'edilizia, chiamati a costruire decine di nuove carceri ogni anno, e dall'altro per le aziende che con sempre maggiore frequenza utilizzano il lavoro sottopagato dei detenuti per le loro produzioni.
La seconda parte del libro è dedicata all'inquadramento del fenomeno all'interno delle politiche sociali perseguite negli Stati Uniti nei confronti dei ceti meno abbienti. Il sistema penale come strumento di gestione della povertà, questo il titolo del relativo capitolo. Non è affatto esagerato. L'autrice mostra molto bene come la criminalizzazione della miseria si accompagna di necessità alle scelte neoliberiste delle ultime amministrazioni, con le politiche fiscali che hanno enormemente aumentato il divario tra ricchi e poveri e il numero di questi ultimi, lasciati a se stessi a causa del venir meno degli interventi redistributivi che avevano caratterizzato le presidenze di Kennedy e di Johnson.
In tempi di globalizzazione (che significa americanizzazione) è naturale la conclusione dell'indagine con una domanda: dobbiamo attenderci anche nel nostro paese una deriva verso la carcerazione di massa per il controllo della povertà? Malgrado alcuni segnali preoccupanti (due leggi della passata legislatura vengono ricordate: la ex Cirielli con l'inasprimento delle pene per i recidivi e la Fini-Giovanardi con l'estensione delle fattispecie legate all'uso e allo spaccio di stupefacenti), sarei meno pessimista dell'autrice. È vero che in molti paesi europei, non solo nel nostro, gli ultimi anni vedono una tendenza all'inasprimento delle pene e all'utilizzazione del carcere nei confronti della piccola delinquenza, anche per rispondere al senso di insicurezza provocato dai reati di strada. Tuttavia, quali che siano gli orientamenti dei futuri governi, lo smantellamento dello stato sociale, se pur continuamente tentato, mi sembra molto più difficile in Europa che negli Stati Uniti. Con una conseguente minore presenza degli strati di disperata emarginazione confinati nei ghetti di aree degradate, che costituiscono il brodo di coltura per le violazioni di massa della legge penale, cui negli Stati Uniti non si sa per ora rispondere altrimenti che con la carcerazione di massa.
Senza contare che proprio libri come questo di Grande possono grandemente contribuire ad esorcizzare i pericoli.   Sergio Chiarloni

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