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Nel 2008 un bel numero di "Riga", curato da Marco Belpoliti, proponeva la presenza di Piero Camporesi come "maestro segreto" della cultura italiana. Lo studioso romagnolo (1928-1997) ha senz'altro l'allure di una figura importante per il rigore radicale delle sue ricerche e la capacità di reinventarle in una prosa ricca, ritmata, sorprendente, che si alimentava sempre di antichi testi, ricercati negli archivi meno prevedibili del sapere. Egli fa parte, quindi, di quella notevolissima schiera di saggisti che ha contribuito non poco all'immaginario della letteratura italiana (da Mario Praz a Elemire Zolla) e che il canone, per solito concentrato su romanzo e poesia, stenta talvolta a collocare. Il tema principale dello scrittore era il cibo e il suo impatto e influsso sul corpo, declinato da ogni possibile punto di vista.
Garzanti, casa editrice di riferimento per il suo lavoro, ha da poco rimandato in libreria la notevole raccolta La terra e la luna. Alimentazione, folklore e società, in precedenza pubblicata, nel 2005, a partire da ben due precedenti versioni, presso Pratiche del 1983 e Il Saggiatore nel 1989. Al centro del volume sta una spartizione netta in due territori di ricerca: il primo è quello delle scomparse ritualità agrarie e l'altro porta all'identificazione tra cucina e storia, a margine dello straordinario lavoro di edizione critica dell'opus magnum di Pellegrino Artusi, curata da Camporesi per Einaudi nel 1970 e più volte riproposta. Il pane e la morte analizza, a partire da un osservatorio di fonti soprattutto emiliano-romagnole, la relazione tra i riti funebri e la panificazione, ripercorrendo i meccanismi di elaborazione del lutto per tramite di un'immagine di rinascita. Certosini e marzolini indaga invece l'opera del rinascimentale Pantalone da Confienza (in provincia di Pavia), il quale ebbe l'idea di raccontare l'Italia per tramite del formaggio e delle sue infinite metamorfosi, definendo esattamente usi, costumi e possibilità di un mondo in cui la carestia era all'ordine del giorno. Il paese della fame (1978) è il titolo, d'altra parte, più famoso dello scrittore e svelava dalla polvere di antichi volumi memorie che spiegavano una penisola marcata dall'inedia per secoli. Il pane selvaggio (1980), poi, uno dei suoi lavori maggiori e più felici per intuizioni e distesa intuizione di scrittura, a lungo indugiava su una terra in cui l'inopia era la regola e il cibo più amato e basilare in ogni esistenza era spesso solo un sogno, o altrimenti veniva realizzato con ingredienti impossibili e impensabili. Il papavero veniva spesso a trovare un ruolo capitale di ingrediente nell'impasto, nell'idea da molti teorici gradita, di un nutrimento drogato, che infine potesse smorzare l'appetito delle masse, per secoli insaziato. In queste opere si dà un viaggio avventuroso nel ventre dell'immaginario italico, riscoprendo rituali del corpo in cui elementi per solito tralasciati in una cultura apollinea e idealistica (il sangue, le feci) ritrovano il loro giusto posto, proponendo una lettura aguzza del tema alimentare, nel momento storico in cui la gastronomia è oggetto di un vero e proprio culto.
Luca Scarlini
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