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recensione di Bartuli, E., L'Indice 1996, n.10
"La letteratura - ha recentemente dichiarato la scrittrice palestinese Sahar Khalifa - può trasmettere la complessità delle relazioni umane in un linguaggio comprensibile a tutti può materializzare l'astratto e scoprire lo sconosciuto". Un'affermazione riferita al più ampio contesto della letteratura in generale, ma ben consona alla personale scrittura dell'autrice, al suo romanzo "Terra di fichi d'india" e all'insieme delle sue opere, compresi gli altri due suoi romanzi tradotti in italiano ("La svergognata, diario di una donna palestinese", Giunti, 1989, e "La porta della piazza", Jouvence, 1994).
Procedere per contrapposizioni di personaggi è una delle principali caratteristiche del suo narrare, che non si limita a trite antitesi del calibro di buono/cattivo, brutto/bello, ma crea una sorta di contrappunto musicale disponendo più voci insieme, quasi sovrapponendole l'una all'altra. Seguendo questo schema i due principali personaggi di "Terra di fichi d'india", Adel e Usama - due giovani totalmente diversi per matrice ideologica e per scelta di vita - finiscono con il diventare le due facce della stessa medaglia. L'intellighenzia palestinese è, infatti, da sempre coinvolta nella diatriba che vede, da una parte, i sostenitori della necessità di continuare a vivere nella Palestina occupata e, dall'altra, i fautori di un partito di resistenza gestita dall'esterno.
Khalifa è fermamente convinta che rimanere nella propria terra sia condizione indispensabile alla sopravvivenza del suo popolo e perciò nei suoi romanzi tende ad analizzare il vissuto di un'intera popolazione ricercando incessantemente le consonanze di posizioni diversificate. In "Terra di fichi d'india", Usama rappresenta il palestinese della diaspora mentre Adel è il portavoce di chi ha continuato a vivere in patria. A un secondo livello, Usama è la frangia che ha identificato nel terrorismo l'unica arma per contrastare l'occupazione mentre Adel fa parte della manodopera araba che risiede nei Territori Occupati e, per necessità economica, lavora nelle imprese israeliane.
Sahar Khalifa, come molti altri autori arabi e soprattutto palestinesi, ha il raro potere di saper riassumere la complessità in poche, succinte parole. Col pretesto dell'incontro-scontro tra i protagonisti, il suo romanzo mette in luce tutta la pericolosità del divario ideologico che lacera la Palestina, e una breve affermazione come "ognuno dei due era convinto di stare dalla parte della collettività" diventa perciò - nell'attualità di questi giorni in cui il cielo, da una parte e dall'altra del fronte, pullula di falchi e colombe - un triste monito alla riflessione. Khalifa, infatti, ascrive tra i mali profondi della società palestinese proprio "l'incapacità di analisi" e con "Terra di fichi d'india" ci consegna, come esempio concreto, un ritratto sagacemente ironico di quell'ampia fetta di borghesia che dice di partecipare alla lotta di liberazione e in realtà si limita a bere il caffè con i rappresentanti della stampa estera. Al segmento più disagiato della popolazione, per contro, l'autrice riserva la sua commossa comprensione, ma non ha esitazioni quando deve denunciare il deleterio atteggiamento di chi accetta supinamente lo status quo. I suoi romanzi, volutamente, non prospettano soluzione alcuna ma costringono a prendere visione dall'interno di una realtà che spesso, dall'esterno, perde la sua connotazione umana e quotidiana.
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