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Il film è liberamente tratto dal fumetto omonimo del grande Gipi – che è un'opera molto bella. Ma il film è probabilmente ancora migliore. Per quanto un fumettista cerchi di cadenzare il tempo con la scansione delle vignette, il cinema – il montaggio in particolare – è ancora l'arte principe nella manipolazione del tempo. "La terra dei figli" è un film girato bene in ogni suo aspetto, e quindi riesce in modo eccellente a rallentare, accelerare, raccordare le avventure del protagonista. Stare sempre in scena in modo molto fisico, spesso con poche o nessuna battuta, non è impresa facile per un giovane attore, ma Leon supera la prova alla grande, forse anche grazie a una certa identificazione attitudinale con il personaggio. Complimenti. Altra grande protagonista è la luce. Luci fioche, malandate, sopravvissute, negli interni. Luci di un grigio accecante negli esterni. Girando il bellissimo "Il racconto dei racconti" Garrone aveva detto che mentre Hollywood deve creare i luoghi fantastici con la computer graphic, noi ne abbiamo la penisola piena. Evidentemente lo stesso vale per la desolazione post-apocalittica. E l'uso del paesaggio lacustre/paludoso non è meramente estetico: due delle scene più potenti del film nascono da momenti di pesca. Un diario è l’elemento che spinge il protagonista alla scoperta di una memoria a lungo negata. E proprio i ricordi e la memoria sono il cuore pulsante di questo film. Perché se è vero che «i ricordi portano paura», è vero anche che quelle parole impresse su un foglio servono a rievocare ciò che non si vuole dimenticare. La memoria diventa così una sorta di potere che permette, anche dopo la fine della società, di mantenere vivo il ricordo e quindi ciò che siamo stati, siamo e saremo. Il cammino verso l’ignoto del protagonista, costellato di incontri tra i più disparati, diventa un viaggio alla scoperta del padre, di un passato mai nemmeno immaginato e di un futuro racchiuso in un abbraccio grazie a cui dare vita a nuovi ricordi.
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